La linea Gotica era passata per il paese con i danni che aveva fatto
dappertutto:
era stata bombardata la stazione, il ponte della ferrovia e una fabbrica,
l’unica che c’era e che meritasse questo nome,
tanto che ancora i vecchi chiamano “la fabbrica” il posto dov’era.
La guerra era finita da una decina d’anni e noi eravamo
cresciuti
nel quartiere di Guazza, tutti insieme intorno alla casa
bombardata,
una casa in via Fonte del Duomo della quale era crollata
la parete laterale, portandosi dietro anche parte dei pavimenti.
Tutto quello che poteva essere riutilizzato era stato
portato via.
Rimaneva soltanto un mucchio di calcinacci inservibili
che lentamente si sparpagliava nello slargo che si era
formato.
Quello era il nostro posto, lì c’era la pista per le
palline,
la parete per il battimuro, il gioco delle figurine e dei
tappi a corona.
Le palline si compravano dalla Dele d’ Blich long
(termine che per pudicizia è meglio non tradurre).
La Dele (Adele)
aveva un negozio di fili e bottoni proprio davanti alla casa bombardata e i
pochi spiccioli che si riuscivano a racimolare
bastavano per comprare sempre meno palline,
il cui prezzo variava
secondo le simpatie e secondo un’inflazione
che non riuscivamo ancora a capire.
Essendo nonna Gemma una rinomata sarta ero privilegiato
sul prezzo
e quindi compravo spesso le palline per la comunità.
A dire il vero non ne avevo un gran bisogno per me
in quanto una innata abilità professionale
mi portava a vincere le palline degli altri.
In ogni caso il prezzo ufficiale era di dieci lire per tre
palline
mentre al libero mercato, per la stessa cifra,
se ne potevano
comprare quattro o cinque.
Mi pare doveroso ricordare che le palline (mai usato il termine “biglia”)
erano di coccio dunque di approssimativa rotondità e dimensione.
Uno dei giochi era pressappoco come le bocce, la differenza stava nel
fatto
che le palline dovevano essere tirate da una riga posta a sette passi dal
pallino.
Altro gioco era il pancotto
che si giocava mandando le palline in una serie di buche.
Quando dopo qualche anno scoprii l’esistenza del golf,
pensai che gli americani lo avessero copiato da noi
e forse è nata li la mia avversione a tutto ciò che si fa
o si dice in quel Paese.
Il gioco più frequente era il filotto: le palline venivano
messe in una fila,
posta verticalmente
alla linea di tiro, fatta la conta si tirava
e la più lontana che veniva colpita era vinta insieme a
tutte le precedenti.
Le tecniche di tiro erano diverse e ad ognuna veniva dato
un nome,
oppure prendeva il nome di chi l’adottava coi risultati
migliori.
Attilio, nel suo libro Palline miseria chitarre e speranza
(dal vicolo all’asfalto) ne descrive alcune molto
bene di quelle in uso in città
“C’era dunque il modo di Luciano,
il bricoccolo e anche il tiro del cesso,
che consisteva nel colpire la
pallina stando accovacciati.
Il colpo alla pallina poteva essere
dato con l’indice
che scattava da sotto la falange
del pollice
oppure dal pollice che scattava da
sotto la prima falange dell’indice.
Il primo sviluppava certamente
maggior potenza,
tanto che poteva succedere che le
palline scontrandosi si spaccassero.
Il secondo, sebbene meno potente, era
sicuramente più elegante
e le tre dita non usate, tenute
sollevate davano ancora più eleganza al gesto”.
Quando comparvero le prime palline di vetro non ebbero un gran successo,
perché eravamo più attirati dalle palline di plastica con la figurina dei
ciclisti all’interno.
La grande dimensione e il basso peso di queste prevedeva giochi di tipo
diverso
e così cominciammo a costruire piste per far correre le nuove palline.
La pista era scavata tra i calcinacci e il terreno
ed era rigorosamente vietato pulirla prima del tiro
fatta eccezione dell’unanime consenso per sopravvenuto crollo di una
soprelevata.
Altro gioco (sono fermamente convito della unicità
dell’invenzione)
era il cannoncino Formitrol. che
consisteva nel mettere acqua in un tubetto di alluminio
di Formitrol (medicinale per il mal di gola) e tapparlo con un sughero.
Il tubetto si appoggiava su un focherello improvvisato,
in modo che
all’ebollizione dell’acqua il tappo saltasse via.
I tappi venivano sagomati e provvisti di alette,
lavorati in vari modi sempre più sofisticati:
Non conoscevamo Von Braun, ma se ce ne avessero parlato,
avremmo concluso all’unanimità che aveva copiato da noi.
Vinceva ovviamente chi faceva andare il tappo più lontano.
Di quel periodo ricordo bene il mastello
che mamma metteva la mattina fuori dell’uscio e che
serviva la sera a farmi il bagno.
Ero ormai abituato ad aspettare in mutande fuori di
casa
e a chiamare mia madre quando ero già a mollo.
Lei arrivava e, ancor prima di lavarmi, mi assestava
un brettone
(scappellotto dato sulla nuca, dove batte il berretto)
Non ne ho mai capito la motivazione, ma non mi sono mai
opposto,
credendo che, più che per punirmi, lo facesse per propria
soddisfazione
e dunque lo prendevo come fosse una missione per far
felice mia madre,
in fondo il manico della scopa era molto peggio.
Ne ho presi talmente tanti che ho ormai la certezza
che la mia artrosi cervicale dipenda da quelli.
Il trascorrere del tempo ci portava ad occupazioni di tipo
diverso
facendoci abbandonare i vecchi passatempi per nuove
attività.
Arrivò dunque il periodo delle guerre tra quartieri che,
se dapprima erano solo scaramucce, si trasformarono ben
presto
in furiose sassaiole, con teste bucate da sconosciuti e botte prese dai
familiari.
Nella nostra casa bombardata tutti i giorni ci si allenava alla battaglia
con le cerbottane,
e, quando veniva colpito qualcuno, il tiratore urlava:“Morto!”
e il colpito ribatteva: “No, m’hai preso di striscio”.
Ovviamente si rimetteva il responso nelle mani di una
giuria,
che giudicava tenendo in gran conto la simpatia e il
carisma dei coinvolti. Ricordo una volta che Silvano Mezz’ett (mezzo etto per
via della magrezza),
rincorrendo qualcuno, cadde con la cerbottana in bocca e
si ferì-
Il sangue usciva dalle labbra anche se le mani stavano
serrate sulla bocca,
la quantità di sangue e l’espressione di sofferenza ci
fecero credere
che ormai non c’era più niente da fare tanto che quando
qualcuno disse
“un eroe muore da solo” ce ne andammo tutti a testa bassa e in silenzio lasciandolo
lì.
Non mi ricordo come andò a finire ma Silvano, l’eroe,
ancora ce lo rinfaccia.
Era in quel periodo che io e il Bocciolo cominciammo a
frequentare
il greto del fiume, al confine dei campi di tabacco di
Veleno
e il campo di erba medica di Bartoccioni, suo nonno,
costruendo capanne con malta, sassi e frasche,
manifestando una vocazione che ci portò fino all’università in un tentativo che
prevedeva
lui ingegnere ed io architetto e che si risolse con
lui geometra ed io a far mobili.
A quel tempo, la società elettrica cambiava i pali della luce di legno
con quelli in cemento
e i nostri avversari di Pian del Vescovo avevano costruito una zattera
con parte dei vecchi pali.
Il Gran Consiglio di Guazza incaricò me a il Bocciolo, i più acquatici,
di sottrarre la zattera agli avversari.
Partimmo un pomeriggio col gratificante sostegno morale
dei nostri compagni risalimmo il fiume, presa la zattera, ci appoggiammo sopra
i nostri sandali,
ma nella cascata della chiusa la zattera si ribaltò
e un sandalo del mio compagno non si ritrovò più.
La perdita del sandalo di bufalo, venuto dai parenti
argentini,
calzare di inestimabile valore, costò al Bocciolo
indicibili privazioni
che fecero apprezzare ancor di più la portata dell’eroica impresa.
I complimenti di tutti nella sala della casa
bombardata,
furono di grande soddisfazione, ricordo ancora le
pacche di Silvanino Ronchetta (soprannome derivato da un membro non
propriamente rettilineo),
di Luciano, di Luigi che una brillante carriera di
centravanti lo portò fino alle vette dell’interregionale facendolo assumere di
diritto in Comune in qualità di vigile urbano,
e anche di Vincenzo, il figlio della guardia che ci
sequestrava i palloni
coi quali giocavamo sotto il porticato della scuola e
che,
sequestrandoli a sua volta al padre, ce li riportava il
pomeriggio dopo.
Il pallone aveva ormai preso in pieno i nostri interessi
e ci vedeva ormai professionisti con ruoli ben assegnati
e, anche se al campo l’allenatore si sforzava di darci ruoli diversi,
nessuno di noi si sognava di cambiare la posizione data dal cielo.
Io e Bongo eravamo terzini, Bocciolo portiere, Vincenzo (un altro)
mediano
con Bellucci e Roberto Rossi (quello che oggi è il mio medico di
famiglia) attaccanti,
altre posizioni non le ricordo.
E’ curioso e me ne accorgo solo ora, il modo di chiamarci,
alcuni di noi, io compreso erano chiamati per soprannome,
altri per nome, altri per cognome e altri ancora per nome e cognome,
sarebbe bello vedere se questo modo di chiamarci
abbia avuto qualche influenza sulla vita di ciascuno.
Le partite più importanti erano giocate contro i paesi vicini
e le organizzava chi, rimandato a Settembre,
andava a ripetizione da un insegnante fuori paese; dunque tutti,
perché una materia a Settembre, a quei tempi, non si rifiutava a nessuno.
Le offese che in campo fanno tanto scalpore oggi, allora erano all’ordine
del giorno-
Mi ricordo che una volta fuggii da un attaccante che mi rincorse in giro
per il campo
“solo” perché gli avevo detto che la prossima volta portasse una zia,
perché della madre e della sorella negli spogliatoi eravamo stufi.
In quegli anni iniziò il restauro della casa bombardata
e venimmo a sapere che non già una bomba, ma un crollo strutturale
(però durante un bombardamento) l’aveva demolita per metà,
Questo fu per me una delusione tremenda pari solo all’aver saputo,
un decennio dopo, che Lucio Battisti era di destra.
Ancora oggi, passando per la
Fonte del Duomo, alla vista della nuova palazzina
che si erge sulle nostre piste non manco di ricordare il tempo e gli amici
di allora.
L’unica cosa che mi rincuora e mi dà la certezza della bontà del
restauro,
è il fatto che in essa è situata l’ormai storica sede del partito
il cui portone è sovrastato da una insegna luminosa,
che magari cambia un po’ spesso,
ma ha almeno il pregio di essere sempre nuova.