lunedì 31 dicembre 2012

I Vichinghi

Ho tirato giù “I vichinghi”, e l’ho rivisto, mi pareva impossibile, era del ‘58
ma sono sicuro di averlo visto dopo, almeno due o tre anni dopo,
perché ero già amico con Dal Foco e quando siamo tornati a casa sua,
dopo il film, ci siamo messi a tirare l’accetta
che il padre usava per spaccare i ciocchi di legna,
la tiravamo sul portone della cantina,
ad un certo punto l’accetta prende in un ferro,
rimbalza e lo colpisce su una gamba,
presi dal gioco continuiamo a tirare ancora,
un tiro a testa, finché la Manuela si accorge del sangue su una scarpa di Giorgio,
a quel punto ci fermiamo a controllare la ferita,
è un bel taglio e adesso gli fa male
ma la paura dei rimproveri dei genitori è più forte del dolore
e allora si decide di tenere tutto segreto,
io e Manu ci impegniamo a curare la ferita,
nessuno saprà mai niente.
Da quel giorno ci improvvisiamo dottori e curiamo il nostro amico
con bende e alcool presi in casa di nascosto.
E’ quindi da quei giorni che, non ricordo come, comincia la nostra storia
che ci vede ad inventare giochi che alla nostra età erano insospettati dagli altri amici,
ci si incontrava di pomeriggio a casa di Dal Foco, che era in affitto dalla Manuela,
e poi, se arrivava lei, si scendeva di sotto.
Mai che ci fosse stata rivalità, solo amicizia e condivisione in una serenità
che ancora oggi mi stupisce e mi fa tornare dentro qualcosa che non so definire
e che mi dà ancora una nostalgica tenerezza e voglia di solitudine.
Continuiamo ad incontrarci finché un giorno Giorgio ci dice che torna a Cesena
perché il padre ha ripreso a lavorare lassù. 
Ricordo benissimo quel pomeriggio in cui abbiamo pianto tutti tre 
consapevoli che per l’ultima volta saremmo stati insieme.
Per parecchio tempo non ci siamo visti, io e Manu, 
come se l’aver perso uno di noi ci avesse separati tutti tre.
Ci siamo ritrovati fuori di casa sua che eravamo ormai adolescenti la seguo,
nella cantina che era di Giorgio è rimasto tutto com’era,
il canterano, la catasta di legna la tavola per salare il maiale appesa al muro,
una statuetta della madonna col mantello azzurro e qualche attrezzo in giro,
siamo stati lì, per non so quanto e dopo sono uscito dalla porta dei Vichinghi,
la nostra porta che da sul vicolo sotto l’arco, “Torni?” “Si”.
Siamo andati avanti così, per tutta l’adolescenza.
Ci si vedeva anche solo per stare seduti a raccontarci le nostre cose,
le speranze di ragazzi, le partite della domenica, la scuola e gli amori
e ci si rideva sopra come quando il Riccio andava a baciare l’anello al vescovo
mentre passeggiava leggendo il breviario 
per prendere i cioccolatini o i biscotti della POA
da portare in regalo alla Manu.
Alla prima peluria che mi comparve mi disse “Sei uomo”,
feci finta di niente ma non stavo nella pelle.
Ormai studiavo fuori e i nostri incontri erano solo per le grandi feste
e a volte nemmeno in quelle.
I miei amici erano venuti a sapere della cosa e a volte ci scherzavano su,
Manu non era bellissima e anche un po’ sovrappeso,
aveva avuto qualche insuccesso affettivo
e nei nostri incontri ormai occasionali ne parlavamo.
Le nostre strade erano ormai segnate e non ci si vedeva quasi più,
le poche volte che ci si incontrava bastava un cenno
e la porta dei Vichinghi si apriva con qualche cigolio,
ora non ci fermavamo più di sotto
ma salivamo fin da lei a raccontarci le nostre vite.
Per la festa d’addio al celibato eravamo tutti alla Rocchetta
e ad un certo punto spunta lei,
mi viene incontro e mentre si siede al nostro tavolo
gli altri si alzano e se ne vanno.
Era da tempo che non ci si vedeva, si sta li,
si parla un po’ finché si fa tardi,
si va tutti a casa tra risate e sfottò, ma quando restiamo soli
entriamo ancora per la porta dei Vichinghi e si va su a parlare.
“Perché non hai preso me?”
“Ma che te ne fai di uno come me!”
“Perché, lei che se ne fa?”
“Ma io sto dietro una scrivania, che aiuto ti do nella bottega?
Mi ci vedi a vendere fili e bottoni?
A te ti ci vuole uno che stia li e ti dia una mano…”
“Sei stronzo, dimmi che non mi vuoi bene e ci credo
ma non dirmi che mi tocca rimanere zitella per colpa della bottega dei miei”
“Non è vero, ti voglio bene ma la vita è andata così,
non so nemmeno se domattina mi presento in chiesa”
Quella sera Manu mi accompagna alla porta, giù in fondo alle scale
in un silenzio inutile che i genitori ormai conoscono e sanno anche chi sono io.
Chissà perché queste cose segrete riescano sempre ad essere di dominio pubblico.
“Tornerai”
“Ogni volta che lo vorrai”
“Domattina vengo in chiesa, ciao”
“No,dai così non mi aiuti”
“Vengo lo stesso”
Nove Maggio, Domenica, anche stamattina riesco a far tardi,
quando arrivo lei è già lì, sotto i portici della chiesa 
è davvero carina, ha tolto gli occhiali e s’è messa le lenti a contatto,
un cappellone bianco che fa fatica a starle in testa per via del vento
ride felice e le si vede quell'incisivo un po' storto che pare bello anche lui
e intorno un sacco di gente che ci fa festa.
Manu in forma smagliante con un vestito rosso che svolazza
e pare una bandiera in mezzo a uno sciopero della CIGL.
“Sei stato da lei iersera?”
Una fucilata in pieno petto, come cazzo lo sa? Da quanto lo sa?
Cerco una via di fuga, se mi fa una scenata qui in mezzo scappo in sacrestia,
ho paura che qualcuno capisca e sorrido guardandomi intorno
“Da lei chi?”
“Testa di cazzo!”
Prendo mamma per un braccio e entro, lei mi guarda e capisce che qualcosa non va
ma sta zitta e mi accompagna fino in cima.
“Vuoi tu sposare……
“Si, Si, (che tanto se non mi ha ammazzato adesso non mi ammazza più
e speriamo che dica di si anche lei)”.

Non ho più visto Manu,
so di lei che si è sposata con un fornaio di San Giovanni in Marignano,
adesso è vedova, ha due figli, e vive al nord, …come può.
La bottega in paese la manda avanti il fratello
e lei non torna mai, proprio come me.

E’ il giorno di Natale e si va un po’ a spasso per il paese a smaltire il pranzo,
i figli ormai grandi vanno per conto loro,
ed è bello passeggiare soli con poca gente in giro.
“Entravi da qui”
Il portone è vecchio e il legno in basso è ammuffito e spaccato,
due anelli, una catenella arrugginita e un lucchetto sostituiscono la serratura,
segno che da lì si passa di rado
e pensare che una volta era sempre aperto, bastava alzare la levetta e spingere,
chissà come sarà dentro.
“Non molli mai tu”
“Tu molleresti?”
“Certo! L’ho fatto quando t’ho sposata”
“Testa di cazzo!”.




lunedì 24 dicembre 2012

La pecorina


 
Da qui si vedono bene Antonio e l’Amalia (meglio la Malia) che sfaccendano;
entrano e escono di casa, con una ramaccia mandano via dall’orto una gallina
raccolgono due pomodori o fanno qualcos’altro;
si muovono male e lentamente curvi come sono,
si reggono tutti due su un bastone scortecciato
che avrà fatto di sicuro Antonio.
I bastoni d’ornello (quello con cui si fanno gli archi per le frecce)
sono più alti delle loro teste e si vede chiaramente che servono per reggersi
io li guardo e penso che se non ci fosse il bastone cadrebbero all’avanti.
E pensare che una volta erano grandi lavoratori,
gli unici contadini rimasti in paese
stavano a ridosso delle mura
e lavoravano la terra che va dai muri al fiume,
e tra i campi di tabacco di Veleno e il ponte nuovo,
un gran rettangolo di terra diviso dai filari di viti
e nelle tavole c’era un po’ di tutto:  lupinella per le bestie,
granoturco per i polli, fieno per le vacche e i conigli,
e quello che serviva per casa.
Avevano due mongane, il maiale, qualche pecora, le galline e i piccioni
i conigli… insomma tutti gli animali che ci sono dai contadini.
Per me e il Bociolo era il nostro territorio,
lì si facevano le nostre cacce grosse con le fionde
per colpire l’aquila (dicasi piccione) il condor (la gallina,
ma il bersaglio era facile quindi di poco pregio)
il puma (il gatto ma non il suo) il caimano (la lucertola)
che, se si catturava vivo si legava e si metteva vicino al gatto
che tentava di acchiapparla mentre noi gliela tiravamo via
salvo poi lasciargliela quando eravamo stufi.
Andavamo nel fondo della nonna (la Malia)
e con un cucchiaino bucavamo le forme di formaggio
per mangiare il dentro.
Lei, la nonna, s’incazzava coi topi e metteva trappole dappertutto.
Antonio ci aveva insegnato a prendere i passerotti con la rete e col vischio,
poi però toccava ammazzarli a mano sennò tribolavano
e allora gli mettevamo il collo tra l’indice e il medio
e giravamo la mano in circolo, sentivi un tace e erano morti,
li portavamo alla Malia perché mamma e la Maria non li volevano,
perché toccava spennarli..

Il giorno prima della fine della scuola arrivarono i miei occhiali,
vado giù a farli vedere al Bociolo
e poi ci siam messi a tirare le frecce con l’arco
uno tirava e l’altro riparava la freccia con una cartella di scuola
Insomma, non so come, ma una freccia mi colpisce una lente dell’occhiale
“Bociolo, mi sa che c’ho i vetri nell’occhio”
“Fa vedere”
“Se ci vedono s’incazzano, andiamo sotto il ponte”
Quando siamo là lui, armato di un bastoncino,
mi cava due pezzetti di vetro dall’occhio.
“A me dà ancora fastidio ma mi pare che vada meglio”
Ci lasciamo e vado a casa a dire a nonna che si sono rotti gli occhiali;
lei mi risponde che non fa niente, ma devo starci più attento,
anzi quando gioco è meglio che li levo
se poi non li voglio portare è lo stesso
tanto se non li ha guariti santa Maria Goretti
non lo farà nemmeno l'oculista.
Era successo che anni prima, al passaggio della salma di santa Maria Goretti,
nonna mi aveva mandato a baciare non ricordo cosa
e lei intanto gli chiedeva la grazia per ridarmi la vista dall’occhio destro.
La poverina (la santa) era appena stata ammazzata da un bruto che la voleva violentare,
figuriamoci se aveva voglia di stare a sentire mia nonna!
Sta di fatto che io ancora dall’occhio non vedo bene
ma non mi ha mai dato problemi (che non sia questa la grazia?).
Avevo questi pensieri quando stavamo appoggiati al muro
davanti a casa mia e guardavamo laggiù i due vecchi curvi
ma così tanto che per vedere davanti dovevano rizzare la testa,
eravamo sotto un sole che mordeva, più in là c’era l’ombra del noce
ma stavamo lì lo stesso con la testa appoggiata ai bracci
tra il sonno e la noia
e forse sarà stato un colpo di sole  o di genio,
non so ma ad un certo punto mi scappa detto:
“La pecorina”
“Cosa”
“La pecorina”
“La pecorina cosa, che cazzo dici”
“Dico che possono fare solo la pecorina, li vedi come sono curvi?”
“ Testa di cazzo, come ti viene in mente, sono i miei nonni!”
“ Scusa Bociolo, m’è venuta così senza pensarci”
Prima silenzio per un po’, poi lui si mette a ridere come un matto,
si piegava e contorceva come non l’avevo mai visto.
Se non fossi stato sicuro che stava ridendo avrei creduto che stesse male.
Durò parecchio a ridere e io con lui e ogni tanto ci ripetevamo: ”La pecorina”.

Quando morì Antonio io ero fuori e non partecipai al funerale
ma quando morì la Malia c’ero e andai alla funzione.
In chiesa mi avvicinai per dare la mano al Bociolo che quasi mi trascina in sacrestia,
e quando arriviamo davanti al cantarano dove si cambia il prete,
si mette una mano davanti alla bocca e comincia a ridere:
stringeva la mano alla faccia e rideva
“Che cazzo c’hai da ridere”
“ La pecorina”
“Ma sei cretino, ti pare il momento?”
“Allora… che ci posso fare?!
Lo sai che non riesco a farla perché mi vien da ridere?
M’è capitato e ho fatto una figura di merda, non la posso più fare!”
“Dai Bociolo siamo in chiesa… è morta tua nonna…”
“Ma se abbiamo fatto più stronzate qui dentro che fuori!”
“Si, è vero ma io adesso torno di là”
“Va bene ma stammi distante che sennò mi fai ridere”

Certo gli son stato distante,
sono andato in fondo dove c’erano Bongo e gli altri.
“Com’è che state quaggiù?”
“Perché Cola c’ha i piedi piatti”
“E’ cinquant’anni che li ha così s’è accorto adesso?”
“ Adesso gli fanno male e il dottore gli ha detto che ce li ha piatti”
Gliel’abbiamo detto da sempre e non c’ha mai creduto, vallo a capire a Cola.
Siamo tutti lì appoggiati a un muro che sta su
da mille anni anche senza che lo reggiamo noi
e ripensando a prima m’è venuto in mente che a quattordic’anni,
in una estate sotto un sole vigliacco, senza capire cosa dicevo,
ho rovinato la vita sessuale al mio migliore amico,
abbozzo un sorriso e Bongo mi fa
“Che cazzo c’hai da ridere”
“Niente pensavo”
“Te sei idiota”.

domenica 16 dicembre 2012

Gemma

Gemma carissima e cari tutti
Rispondiamo alle tue insistenti richieste delle settimane scorse
per darti le notizie che chiedi:
Noemi sta bene è con noi ormai da un mese
e per ora tiene in ordine il salone,
crediamo che presto potremo anche farle fare qualcosa di più,
non esce mai di casa e la sera si intrattiene con noi ad ascoltare la radio.
Non è necessario che tu cara Gemma ci chieda sue notizie tutte le settimane,
quando ci saranno nuovi sviluppi te li comunicheremo.
Un saluto carissimo a Domenico e a tutti voi, un bacione a Mirella e Paolino.
Caramente Ines e Amilcare.

Questa la cartolina postale che zio Amilcare scriveva a nonna
qualche tempo dopo il nostro ritorno da Genova.
Eravamo stati invitati a passare qualche giorno dai nostri parenti genovesi
che facevano i parrucchieri colà.
Il loro appartamento era all’ultimo piano di un palazzo,
ma sopra loro c’era una soffitta dove abitavano due ragazze venete
di cui una giovanissima, poco più che adolescente.
Mamma e nonna avevano preso confidenza con le giovani
che la sera uscivano per andare a guadagnare “un toco de pan”.
Zio Amilcare diceva di lasciarle perdere
e non era contento che nonna stesse sul pianerottolo a chiacchierare con loro.
Una sera nonna le seguì e, capito come si procuravano il “toco de pan”,
prese la giovincella per un orecchio e la riportò a casa.
La mattina dopo l‘accompagnò nel salone di bellezza di zio Amilcare
dicendo che da quel giorno Noemi avrebbe lavorato lì.
E così fu.
Fin da bambino ho intuito che guadagnare “un toco de pan”
non era il modo più lecito per campare anche se non sapevo perché.
Quando l’ ho saputo ho capito anche che era il più diffuso.

Aveva la macchina da cucire davanti alla finestra
così, mentre lavorava, poteva vedere chi passava nella strada,
e teneva la porta di casa e della saletta sempre aperta
perché sennò le mancava il fiato.
Durante il ventennio era stata maestra di taglio e cucito alle scuole,
ma poi aveva smesso perché non le piaceva il regime
continuando a fare la sarta
e credo che fosse davvero brava
almeno a giudicare dal via vai che c’era per casa.
Sua madre, nonna Benilde, non l’ho conosciuta
ma dai suoi racconti  doveva essere un fenomeno di donna,
dalla battuta sempre pronta e dall’ironia tagliente.
Quando tornarono, dopo la fuga dalla guerra, in casa c’erano i topi
e, mentre la bisnonna era davanti al fuoco,
un topo le salì sulla gonna e scese immediatamente.
Il suo commento fu “Non la vogliono più manco i sorci!”
(Come altre frasi anche questa è entrata nel lessico familiare).
Suo fratello, zio Teofilo, faceva l’assicuratore
e veniva quasi tutte le sere a passare un po’ di tempo a casa nostra,
arrivava a qualsiasi ora, tanto la chiave stava sulla porta giorno e notte
(e c’è rimasta fino alla morte di mamma)
Si metteva seduto sul divano e poggiava i piedi sul tavolo.
Una notte che mi ero svegliato perché c’erano dei rumori che venivano dalla saletta,
l’ho chiamata e sottovoce gliel’ho detto
e lei m’ha risposto:“Sta tranquillo e dormi che sarà zio Teofilo che si riposa un po’”
e non s’è nemmeno alzata per andare a vedere,
tanto se c’era un ladro doveva essere sicuro uno più povero di noi.
Si, non credo fossimo i più ricchi del paese, anzi,
ma stavamo bene, ma non per soldi,
stavamo bene nel senso che a casa nostra si stava bene
e io mi sentivo circondato da persone che mi volevano bene.
Quando in giro per il paese mi chiedevano chi ero
rispondevo “Il figlio di nonna Gemma”,
credo che la gente capisse perché non chiedevano altro.
Mi mandava spesso a far commissioni,
a comprare i fili o altro dalla “Dele” della merceria
oppure a comprare la pasta o l’olio nella bottega di Guazza
e io mi sentivo caricato dalla sua stima ed ero contento e
sono contento anche adesso pensando a quanto stavo bene allora!
Il massimo fu quando mi insegnò a usare la sua macchina da cucire,
sono sicuro che nessuno mai più mi diede tanta fiducia,
quella macchina era il suo unico mezzo di sostentamento
e mi ci faceva mettere le mani a me e… se si fosse rotto?
Da quella volta cominciai a cucire di tutto,
facevo perfino i vestiti alle bambole di mia sorella
e ancora oggi faccio da solo quello che c’è da cucire in casa,
dalle sacche per le mie vele ai risvolti dei pantaloni.
Adesso la Durkop di nonna è nel mio soggiorno e lì sta tenuta come una regina,
con sopra lo specchio inclinato che c’era nella saletta.

Avevo dodici o tredici anni e a primavera mamma decise che era tempo di mettere i pantaloni corti.
I miei amici già dall’estate scorsa li avevano lunghi
e a me non stava più bene di continuare ad andare in giro con le gambe scoperte come un bambino
e allora continuavo con quelli lunghi invernali, anche se il caldo cominciava ad arrivare.
Una mattina mi sveglio e trovo in fondo al letto un paio di pantaloni lunghi bianchi
bellissimi, fatti con la stoffa delle lenzuola di canapa.
Quando mamma tornò dall’asilo, nonna non le diede il tempo di dire niente
e disse “Era ora no?” e non ci furono altri commenti.
Appena fuori dalla porta di casa c’era il Bociolo che aspettava seduto sul sedile di pietra
E mi fa “Cazzo che belli, te li ha fatti tua nonna?”
“Ma va là, li ho comprati a Pesaro”
“Coi soldi di chi?”
(ora capisco che una volta la povertà non era una vergogna ma un bene comune)
“ Va bene stronzo, li ha fatti nonna stanotte”
“ Se è avanzata la stoffa li voglio anch’io”
Il giorno dopo andavamo in giro tutti due coi pantaloni bianchi di canapa.
Mi ci ero affezionato tanto che li lavavo da solo,
perché mamma riusciva a far diventare tutto rosa o celestino.
Un giorno successe che lei li lavò lei e l’amore tra me e le mie brache finì.


Quando una mattina i preti del collegio mi dissero di prendere la corriera e andare a casa
immaginavo che ci fosse qualcosa di importante:
Arrivai e mamma mi accompagnò all’ospedale:
nonna era nel letto e appena mi vide si mise a gridare:
“No, no, no, no, no” e non la finiva più, sapeva dire solo quel “no”:
Mi avvicinai per toccarle una mano,
lei più svelta di me prese la mia
e la strinse continuando col suo:“No, no, no, no, no”
poi me la scansò come volesse che andassi:
Mamma mi disse: Ha avuto un ictus e non capisce più”
“Tu, non capisci”
“Aspettami a casa che io sto qui con lei, vengo più tardi”
Uscii dall’ospedale e arrivato sulla Flaminia, feci l’autostop
e tornai in collegio.
A Pasqua tornai a casa e nonna non c’era più,
per il funerale non m’avevano chiamato:
“Tanto ormai a che serviva?”
Passai quei pochi giorni di vacanza nel fondo
a mettere a posto le cose vecchie rendendomi conto ogni giorno di più
che avevo perso l’unica persona che mi abbia mai voluto bene
e anche ora, mentre sto scrivendo, sento che l’affetto che ho avuto da lei
non l’ho avuto mai più da nessuno.


 

lunedì 10 dicembre 2012

Fanculo anche al ballottaggio

Sono le sei e mezza, ma è da un pezzo che mi rigiro nel letto e allora mi alzo,
tutto quel che mi serve è messo in fila sulla scrivania da iersera, cibalgina compresa, non si sa mai.
Alle sette e un quarto sono nel seggio a firmare le schede.
Le firme vengono un po’ sghembe: il freddo non aiuta a far firme belle
Arriva Frank, si ferma un po’ e poi se ne va,
Quando torna ha in mano una stufetta che ha preso dal cesso di casa.
Anche oggi quella poveretta della moglie avrà un motivo per incazzarsi.
Il freddo pela lo stesso, ma quella, che butta aria calda nei piedi è già qualcosa,
almeno ci togliamo i cappucci dalla testa e cominciamo a sembrare cristiani.
Sono le otto, ci siamo tutti e si comincia.

“Scusate  ehi voi, scusate ma ho messo nell’urna la tessera elettorale invece della scheda”
Guardo l’Agostina e mi passo le mani tra i capelli.
Lei si avvicina  e mi dice all’orecchio:“La meni domani, adesso fai il bravo”
“Signora non posso aprire l’urna, quando faremo lo spoglio potrà riprendere la sua scheda”
“Quando?”
“Stasera alle otto”
“Ma io non posso aspettare”
“Perché? Non ci sono mica altre elezioni in giro oggi. Stia tranquilla, gliela porto io a casa”
Come inizio non c’è male.
L’Ago ha portato le crostate che ha fatto l’Alberta, sua mamma, così le offriamo ai votanti
e diciamo che le abbiamo fatte coi due euri che hanno versato la settimana scorsa.
Ridono felici e mangiano una fettina tanto per gradire.
Le operazioni si svolgono alla svelta, ogni tanto qualche piccolo incidente
come quello che porta una bottiglia di vino dentro e si mette a distribuirlo
e mi tocca fermarlo perché non voglio alcolici nel seggio.
Qualcuno vuol votare senza avere il consenso del coordinamento provinciale e
l’Antonietta si incazza come una bestia quando le dico che non può votare
“Allora cosa son venuta a fare?”
“Antonia, abbi pazienza, non ti son venuto mica a chiamare io, non t’incazzare con me.
Se ti sei iscritta venerdì e non hai il permesso a votare non puoi farlo
perchè non  è stato avvertito il tuo seggio di origine che tu voti qui e quindi potresti votare due volte”
“E’ una regola del cazzo!” gira i tacchi e se ne va
Arriva uno che ha fatto richiesta via mail e dice che per la legge del silenzio assenso può votare e  vuole farlo subito 
“Guardi che qui è il contrario, se non ha avuto l’autorizzazione non può votare”
“Ma io pago i due euro”
“Non è una questione di soldi, il regolamento prevede…”
“Andate a fanculo voi e il regolamento”
Fortuna che tipi così ce ne sono solo due:
gli altri che si sono presentati si son fatti bastare un “no”
e sono andati via senza commentare o almeno non li abbiamo sentiti.

L’unico che ha avuto il permesso è Alfio, 88 anni, abita sopra casa mia.
Tutti i pomeriggi si chiude nel garage, si mette le cuffie e mentre ascolta la musica
suona un tamburo menando come un forsennato.
Un giorno che menava più del solito ho bussato nella serranda e gli ho chiesto
“Ma che cazzo suoni?”
mi fa vedere un cd  “Led Zeppelin  - Led Zeppelin IV”
pensai “E’ pazzo! Rock a 88 anni, sognerà di essere John Bonham”
“L’ho trovato qui davanti, è tuo?”
“No, non è mio, io i Led li tengo in cassaforte”
Ma per precauzione sono andato a vedere, hai visto mai…
Indossa sempre un camicione felpato a quadri grandi fatti da righe rosse e blu, sempre quello,
gli arriva ai ginocchi perché lui è corto e la camicia è lunga;
era meglio il contrario, ma ormai è andata così,
o ne ha una decina o quel camicione è diventato una cotica;
sulla testa tiene un cappello con la visiera con sopra la papalina.
Lavorava per il comune e faceva il chiappacani poi ha fatto il fontanaro
e poi aggiustava le caldaie. Quando è andato in pensione gli hanno fatto una gran festa
su al comune, poi hanno chiuso il portone per paura che tornasse.
C’ha un ape furgonato, ci carica la moglie e la scarrozza dappertutto anche sulle scalinate
che qui da noi, visto che la città è fatta su una ripa, ce ne sono più che di strade.
Quando arriva dice che è stato male per tutta la settimana come se dovesse giustificarsi con noi.
“Ma se t’ho visto tutti i giorni a scorazzare con l’ape”
“Andavo a far la spesa con la febbre che sta male anche la Rosa” Che bugiardo!
Gli chiedo i due euri che fa finta di cercare e ovviamente non li trova, c’avrei giurato!
“Non ti preoccupare, li metto io poi a casa però me li ridai”
Son sicuro che non lo vedo più fino a Natale.

I votanti al primo turno erano 422, quelli al secondo 382: un successo incredibile.
Tutti felici di poter scegliere quello che correrà per la Presidenza del Consiglio.
E’ uno spettacolo: li saluto tutti con un grazie perché mi stanno riempiendo il cuore di gioia.
E’ vero, i giorni scorsi c’è stata tensione, sono volate parole pesanti,
dubbi e sospetti, oggi no, ho accanto a me Renzo che sta da una parte che non è la mia,
ma andiamo d’accordo e ci intendiamo bene, mi fido di lui, è un compagno.

“Possiamo votare anche per nostro figlio?”
Sono una coppia circa della mia età
“Signora, il voto è individuale”
“Ma noi siamo una famiglia, lo sappiamo per chi voterebbe lui,
adesso studia a Bologna e non possiamo mica farlo venir giù tutte le settimane,
ci costerebbe troppo, io non ho più il lavoro…
I suoi documenti li abbiamo tutti, anche il foglietto da staccare per il secondo turno”
Io e Renzo ci guardiamo e non ci diciamo niente
“Firmi qui” dice lui
“Grazie, quando glielo diremo sarà contento”
Soprattutto avrà capito che non ce ne frega niente per chi vota,
ci importa di lui, di quello che pensa, e c’importa che ce lo faccia sapere,
lo so che secondo regolamento ho sbagliato ma son contento di averlo fatto,
ho riconosciuto queste tre persone come fossero una cosa sola, una famiglia unita.

E’ tornato l’uomo sandwich, stavolta senza cartello, sta sempre attaccato al telefono
e ogni tanto mi chiede in quanti hanno votato.
Faccio finta di pensarci e poi sparo una cifra, la volta dopo la diminuisco
e lui scrive e manco si accorge: basta scrivere e sentirsi compresi nell’ingranaggio,
non importa cosa scrivi, l’importante è che si sappia che lui manda i numeri,
del resto passare da uomo sandwich a comunicatore con cellulare
è stata una carriera fulminante.
Alle prossime elezioni sarà nominato urna e gli infileremo le schede arrotolate...

Sono le otto
 “Ago, vai te a chiudere la porta?”
L’Agostina si avvia e mentre gira la chiave due persone bussano al vetro
“E’ chiuso” loro bussano ancora, l’Agostina mi guarda
 “Ago, fa finta che mancano due secondi e falli entrare, anche loro hanno diritto al voto”
Lei apre e so che lo fa volentieri, è brava l’Agostina, è nella Segreteria del partito.
I due votano e quando vanno via ringraziano fino alla porta,
non ci giurerei, ma mi sa che hanno ringraziato anche da fuori.
Facciamo lo spoglio velocissimi, nessuna nulla, nessuna bianca, nessuna contestata
una tessera elettorale recuperata.
Le elezioni si devono sentire dentro, se sei convinto che sono importanti le fai bene
E la gente ha capito che stavolta erano importanti,
hanno capito tutti che c’era bisogno del loro consenso
per designare chi ci avrebbe governato per i prossimi cinque anni.
Ci salutiamo, abbraccio Renzo, lo ringrazio e porto tutto in sezione (pardon, circolo)
La Tamara è attaccata al telefono che manda i risultati al coordinamento provinciale,
sento che per non sbagliare li ripete due volte,
ogni tanto alza la testa e dice :“Per favore andate a parlare di là che non mi fate capire niente!”
Si capisce bene che quel “per favore” è un ordine e tutti vanno via,
ma tempo tre minuti si ritrova con un altro gruppetto davanti pronto per essere cacciato.
Anch’io mando i risultati al coordinamento nazionale che mi ha chiamato
per la terza o quarta volta, ma non gli avevo mai risposto perché ero sempre indaffarato.
Fotocopio tutto, impacchetto e… finito, sono soddisfatto, si chiacchiera coi compagni
e si decide per una pizza al Giardino della Galla;
qualcuno avvisa la Tamara che siamo là e andiamo.
Dopo un po’ ci raggiunge il Segretario con la fidanzata nuova di zecca:
è una del nord che potrebbe essere mia figlia (manca poco che non possa essere anche la sua)
Ci raggiunge la Tamara che mi porta i fogli che ho fotocopiato:
li avevo lasciati al partito (ho la testa per aria, vuol dire che sono emozionato).
Lei ha un orecchio rosso che non vi dico,
“Ma non potevi cambiare orecchio ogni tanto?”
“Ci sento solo da quello”
Suona il mio cellulare: “Pronto”
“E’ il coordinamento nazionale, abbiamo bisogno che ci ripeta i risultati del suo seggio”
“Ma ve li ho detti mezz’ora fa!”
“Bisogna che ce li ripeta”
Questi hanno voglia di mandarmi di traverso la pizza.
“Si, aspetti un attimo…”
Torniamo tutti a casa, vien giù qualche goccia e forse stanotte nevicherà
è l’una e qui fuori si sta bene, è un freddo che pela ma aspetto un po’ prima di entrare,
penso a D’Alema che adesso dovrà lasciare e passerà le giornate tra la vigna e l’erba spagna
non ce lo vedo proprio, vedo meglio Veltroni a far la maestra d’asilo in Africa.
Suona il telefono “E’ il coordin…” spengo senza rispondere, sarò maleducato?
Fanculo anche al ballottaggio!!

lunedì 3 dicembre 2012

Fanculo alle primarie

Stasera abbiamo avuto un’altra riunione,
ormai sto più in sezione (pardon circolo) che a casa,
ci son state le primarie e si fa un bilancio, domenica faremo il ballottaggio
e ci sono cose da organizzare per questa settimana.
Ieri mattina alle sei e mezza ero al seggio,
una stanza di metratura infinita che prima ospitava un negozio,
c’è un’eco balorda e a parlarsi tocca guardare il labiale sennò non si capisce niente
ce l’ha prestato un iscritto al partito e non ha voluto niente per l’affitto.
Veramente abbiamo cominciato sabato sera alle sei
con l’apertura del kit elettorale e il controllo,
c’era tutto, “cazzo se siamo organizzati!”
Il Frank era già andato a prendere i tavoli e le sedie, anche quelli prestati,
aveva fatto due viaggi con la macchina, grande il nostro segretario di sezione,
(pardon, responsabile di circolo)
firmiamo le schede elettorali, mettiamo a posto i tavoli e l’urna,
tutto pronto per domani.
Allora come ho detto alle sei e mezza ero già lì,
chiuso dentro perché nessuno venisse a rompere le scatole,
alle sette arrivano l’Agostina e il Frank “ mi rigiravo nel letto e allora son venuto qui”
alle otto si apre e c’è già gente fuori ad aspettare, si incomincia:
La gente arriva a frotte, ogni tanto un gruppetto
non ci sono code, ma un po’ di gente che sta lì e intanto che aspetta fa due chiacchiere,
non siamo in una metropoli e ci si conosce quasi tutti,
ad un certo punto arriva uno che passa avanti a tutti sventolando un foglio
e dice di essersi registrato on line, gli spiego che ci sono due persone anziane davanti a lui,
sono solo in due a registrare e si tratta di aspettare tre o quattro minuti
lui vuol votare perché s’è registrato on line, io insisto e lui va via dandomi del comunista
gli astanti si complimentano con me non so se per il comunista o per aver rispettato la loro fila
torna dopo mezz’ora con uno che mi mostra un foglio
 in cui c’è scritto che è il rappresentante di lista e il tipo deve votare subito
“certo” dico “c’è solo lui!” infatti non c’era nessuno che doveva votare e vota.
Nel frattempo vado a prendere il regolamento e mi avvicino al rappresentante di lista
glielo mostro al paragrafo che lo riguarda dove c’è scritto che il rappresentante
deve essere riconoscibile con una fascia al braccio con il simbolo della scheda,
lui ha una striscia al collo alla quale è attaccato un foglio con la pubblicità del candidato
lui insiste che è la stessa cosa e io mi sforzo di fargli capire che così è un uomo sandwich
alla fine capisce e se lo toglie.
“ Ho sbagliato la scheda, me ne date un’altra?”
Queste cose mi mandano in bestia, ci sono 5 nomi e devi fare la croce su uno
come cazzo fai a sbagliare! “Certo signora, ecco la sua scheda nuova di zecca”
“Scusi, guardi che non ha preso la matita”
“Non importa, faccio con la mia penna”
“No, aspetti, deve usare questa matita”
“Ma non è lo stesso? Che differenza fa?”
“Con la sua penna sarebbe riconoscibile, con la matita che usano tutti no”
“Tanto non son mica elezioni normali, non valgono mica niente queste elezioni qui”
Allora che cavolo è venuta a fare
 “Abbia pazienza, usi sta matita sennò mi tocca annullare la scheda”
Ecco, la giornata trascorre così, arriva un sacco di gente,
alcuni lo sappiamo che non sono del partito, ma votano,
dovremmo farlo più spesso, bisognerebbe stimolare la partecipazione
la gente è contenta di votare, di dire la sua, consegna i due euri e vota,
qualcuno fa finta di non averli, solo un paio di persone, “Dopo li porto”
si capisce bene che lo fanno apposta, non vogliono dare soldi al partito,
i ragazzi che registrano tirano fuori le monete di tasca e pagano loro.
Gente che sbaglia seggio, studenti fuori sede non registrati che voglion votare,
qualche bega c’è ma in fondo va tutto bene.
Ogni tanto il coordinamento mi chiede l’affluenza,
“?Pressappoco duecento” “ non vogliamo sapere pressappoco, vogliamo il numero giusto
“Prendi per buono il pressappoco e fattelo bastare”
Che accidenti se ne faranno dell’affluenza ogni ora!
Alle otto si chiude, come per miracolo arriva puntuale l’uomo sandwich
Col suo manifesto esposto, non gli dico niente tanto ormai è finita.
Facciamo lo scrutinio: Nessuna contestazione, meno male!
Tutte le schede sono valide meno una che c’è scritto una cosina irripetibile,
questo tale ha pagato per scriverla, deve essere incazzato nero
ma va rispettato e si scrive sul verbale.
Scrutinio finito, tutto regolare e tre quarti d’ora per i verbali,
Adesso è tutto impacchettato e firmato, sono solo e sto per chiudere,
in una scatola c’è un po’ di roba e vado a vedere,
due tessere elettorali, una carta di identità, una chiave di casa con ciondolo,
un paio di occhiali da sole da donna, appoggiato al tavolo un ombrello
e un calzino da neonato.
Saremo anche diventati più poveri ma perdiamo di tutto come fossimo nababbi.
Prima di uscire vedo vicino alla porta una monetina da 2 centesimi,
la raccolgo e fò per metterla nella scatola dei soldi da consegnare
esito un po’ “E se poi fanno i conti e non gli tornano?” la butto sul marciapiede che è meglio.
Vado in sezione (pardon, circolo) a consegnare la roba,
c’è un sacco di gente che commenta, consegno saluto un paio di compagni e vado via,
sono stanco, la giornata è stata lunga ma è bello aver fatto sta cosa
e aver visto tanta gente che ha voglia di dire la sua.
A casa, non ho voglia di mangiare, predo un po’ di biscotti e un bicchiere d’acqua
la tivù è accesa e dice le percentuali bagno un biscotto nell’acqua…
Cazzo, domenica si replica, e io che dovevo andare a La Spezia!
Finalmente si sarebbe stati insieme che è da troppo tempo che non ci si vede
con Luca, Marina ZK, Paolo Spray tutti amici della vela e chissà chi altro sarebbe venuto
poi saremmo andati tutti da Paolo a Montemagno a raccogliere le olive
Bisogna che lo chiamo e glielo dico, è tardi ma lo chiamo lo stesso,
risponde che se l’era immaginato appena ha visto i risultati, tutto rinviato a chissà quando.
Fanculo alle primarie.

lunedì 26 novembre 2012

Fanculo la gelosia

La Giuseppina baciava, baciava anche bene e dava gusto,
sarebbe stata lì le ore se non ci si inventava una scusa per smettere
ma più in là non si riusciva ad andarci,
avrebbe tenuto a bada anche una piovra,
ormai c’aveva baciato tutti, ma nessuno che potesse dire come era fatta sotto,
finché un giorno, tornando al paese mi dicono che s’è sposata con Aldino
“Ma se non l’aveva manco mai baciato!”

E’ domenica e sono al paese, sto salendo verso la piazza mentre esce la messa
e  incontro la Giuseppina e Aldino: grandi saluti e abbracci,
si passeggia un po’ per la piazza e mi invitano a pranzo.
Per la verità m’invita la Giuseppina, io rifiuto un po’ e poi cedo alle insistenze.
Si va verso casa e si entra dalla porticina ritagliata nel portone
Dritto davanti a noi, dopo il cortiletto, c’è il portico con la vetrata
di ferro e i vetri fissati con lo stucco rosso.
Non è cambiato niente, nemmeno lo stucco che adesso è indurito,
ma una volta andava bene per fare le palline da tirare col cannello della bic
Il portico è formato da cinque archi: in quello di mezzo si entra
e nei due laterali sono ricavati due salottini con poltroncine e divani di vimini
“Che bello, è come una volta!”
“No, le poltroncine le ho cambiate una decina di anni fa
perché le avevate ridotte un cencio” dice la Giuseppina
“Aldino, mangiamo qui!?”
E’ più un ordine che una domanda.
“Va   bene Giuseppina” risponde lento lento.
Mentre lui prepara il tavolo io e lei andiamo in giro per la casa
e mi mostra lo studio, le tre camere di sopra con un bagno ognuna
e alla fine il giardino e l’orto di Aldino,
con le stie dei piccioni che non si ammazzano mai perché servono per la cacca
e intanto parliamo di loro, lei che insegna lettere,
Aldino che bada agli affitti al podere e all’orto e governa la casa, pasti compresi.
I figli fuori a studiare, uno fa filosofia alla Sorbona
e l’altra studia a Milano, non ricordo ne’ cosa ne’dove,
“C’è toccato comprare un buco a Parigi
altrimenti spendevamo una fortuna a farlo studiare
quando avrà finito lo rivendiamo…”
“Aldino è gelosissimo e starà già scalpitando che da un pezzo non ci vede”
“Ma davvero?”
“Si, non abbiamo mai invitato nessuno della vecchia compagnia perché è geloso”
Mentre torniamo in cucina mi racconta che Aldino
non è poi quel misantropo che conoscevamo da ragazzi
pare che faccia tutto con lentezza, ma gli riesce di fare tutto,
è socievole, ma sta bene anche da solo,  anzi, forse sta meglio,
tutte le sere alle sei e mezza va al bar, prende l’aperitivo seduto fuori
e alle otto torna a casa e racconta quel che ha visto,
soprattutto quello che ha intuito guardando la gente
“E puoi star tranquillo che c’indovina,
lui li guarda ben bene, valuta tutto, vestiti scarpe compagnia…
poi viene a casa e sentenzia”
“Non fa vita sociale perché ha paura di essere messo in disparte
e anche per gelosia ma io gli voglio bene così com’è”
Mentre si mangia parliamo di noi poi anche della salute
e ad un certo punto mi viene un lampo e dico
“Ve l’hanno detto che sono diventato impotente?”
“Ma dai... ma come è successo?”
“Quando feci un viaggio in India presi appuntamento da un guru e mancai all’incontro,
quando arrivai un paio di giorni dopo non mi ricevette
e io lo mandai a quel paese con un bel gesto del braccio,
lui capì e si mise a gesticolare con un cero in mano;
io chiesi alla guida cosa facesse e lui mi disse che mi stava rendendo impotente
da quella volta, un paio di anni fa …”
“ Ma i dottori che dicono?”
“Niente, è una questione psicologica,
la guida ha detto che mi passa quando il guru muore
e io ogni mese telefono alla guida, ma sai com’è,
sti cazzo di guru campano come elefanti!”
“Mannaggia, andresti bene per me, lo sai che lui tutti i giovedì e le domeniche
va a letto alle nove e aspetta che salgo, uno stress che non ti dico,
se poi tardo si incazza pure”
Finito il pranzo Aldino ci porta il caffè, sparecchia e poi mi prende sottobraccio
e mi porta a vedere l’orto facendomi un sacco di domande
io un po’ imbarazzato rispondo e lui incalza,
poi mi mostra l’orto con l’insalata, tutta su tre file bella
precisa che pare un plotone dei suoi soldatini,
i finocchi, le carote, le pergole d’uva che d’estate fanno ombra,
ma che in autunno fanno un sacco di foglie secche…
e insomma dice che deve pensare lui a tutto
e anche alla casa pensa lui, non ci sono donne a far pulizie
“Viene una a stirare una volta la settimana”
dopo la morte dei genitori è tutto sulle sue spalle,
gli affitti da riscuotere e le faccende da sistemare.
Parla lentamente, una flemma da far venire il nervoso,
ma arriva dappertutto, sempre attento e guardingo
alto e secco da far invidia, lui fa un passo e io tre.
Adesso vado, ringrazio e Aldino dice
“Giuseppina lo accompagni tu che io lavo i piatti?”
Lei mi guarda, sorride incredula e ci avviamo al portone
“ Ma perché gli hai fatto credere quella stronzata”
“Adesso è tranquillo, non voglio mica niente,
volevo solo che lui fosse a suo agio senza essere geloso
e mi pare di esserci riuscito”
“Tu non cambi mai: sei la più grande testa di cazzo che conosca,
come avrò fatto a baciarti?”
“Avevi baciato tutti e mancavo solo io
dovevi pur finire la pagina delle figurine!
Aldino invece lo hai sposato per metterlo in copertina”

Mentre sono a cavallo della porticina sento la voce di Aldino
“Paolo torna mi raccomando torna ancora a trovarci”
“ Lo vedi che non è più geloso?”
“Fanculo tu e la sua gelosia!”.

lunedì 19 novembre 2012

Aldino

A casa mia non c’erano tanti soldi, anzi diciamo pure che ce la passavamo maluccio.
Nonna Gemma faceva la sarta e mamma la maestra d’asilo dai preti
per un piatto di minestra e niente marchette.
Nonno, l’ufficiale d’anagrafe, ci aveva già lasciati
e lo rimpiangevano più gli amici che i parenti.

Tra le clienti di nonna c’era una signora che a volte veniva a casa nostra
e si metteva sul divano dove sopra c’era lo specchio inclinato verso il basso,
io cercavo sempre la posizione migliore per guardarle la scollatura riflessa
praticamente andavo sotto il tavolo a far finta di giocare con qualcosa.
Mi era simpatica la signora, parlava sempre del suo Aldino che era bravo a scuola,
che sapeva fare questo e quello, che era intelligente, ma era sempre solo
e non giocava mai con gli altri bambini e mi invitava a casa sua a fargli compagnia.
Un giorno nonna decise che le insistenze della signora potevano essere soddisfatte
e, con le scarpe buone e i pantaloni corti appena stirati, mi accompagnò di là dalla Flaminia
per mandarmi su per il vicolo fino all’immenso portone del palazzo degli Angeloni.
La prima volta che mi presentai a casa loro mi fecero fare merenda col pane spalmato di cioccolata.
Per me, che quando andava bene, sopra il pane ci mettevo acqua e zucchero
(quando c’era nonno anche qualche goccia di vino), era una vera goduria,
una cosa da raccontare a Bongo e al Bociolo che col pane ci mangiava le mele.
Nella stanza di Aldino, (solo sua!) c’era un baule di giochi
che, per me che avevo un solo giocattolo all’anno, era una roba dell’altro mondo.
Ricordo ancora le automobili di latta, non quelle piccole che regalavano a me,
quelle grandi coi poliziotti americani col cappello, disegnati di fronte e di profilo,
un elicottero con le scritte in americano, una barca con la carica
che se la mettevi nell’acqua andava davvero,
i soldatini, tanti, ma talmente tanti che ci si stancava a metterli in fila.
Io cercavo di giocarci, ma ogni gioco che prendevo mi veniva tolto di mano
e Aldino mi spiegava come si usava e diceva che era prezioso e non si poteva rompere
e subito lo rimetteva a posto nel baule.
Se prendevo gli sciangai, appena cominciavo a giocarci, arrivava lui
e, anche se sbaraccava tutto, diceva di aver vinto,
non parliamo delle spade: io dovevo sempre morire!
Ogni volta che tornavo a casa raccontavo tutto a nonna che diceva
“Basta, è l’ultima volta che ci vai”
 ma, il giorno dopo, mamma voleva che tornassi dalla signora,
perché quelle merende così a casa non me le sognavo nemmeno
e alla mia età ci volevano proprio.
La cosa andò avanti per qualche settimana.
Io ormai non toccavo più neanche un giocattolo,
appena arrivavo mi mettevo al tavolo e, dopo la merenda,
mi sedevo per terra a guardare Aldino che mi faceva vedere come si fa questo e quel gioco
e anche a pallone, in giardino, mi toccava tirarglielo in modo che lui gli desse di testa
e, siccome non ci prendeva mai, diceva che glielo tiravo male.
Se si palleggiava contro il muro, lui non ci riusciva
e diceva che io avevo il posto migliore o che il suo pezzo di muro era storto.
Era un po’ grosso e quindi si muoveva malamente.
Una volta saltò due scalini e chiamò la madre per farle vedere,
ma, al momento della ripetizione del gesto atletico, cadde
e per poco non si ammazza contro la consolle del pianerottolo.
A me venne da ridere e la madre mi disse che non dovevo insegnargli quei giochi triviali:
“La gente perbene per giocare usa i giocattoli!”.
Tornato a casa feci il solito resoconto a nonna,
per ridere ancora delle fenomenali prodezze di Aldino,
ma, quando riferii che avevo mangiato la crescia (pizza bianca salata col rosmarino)
con la mortadella in mezzo, lei si alzò da davanti alla macchina da cucire e disse:
“ Non è possibile, la crescia fa companatico da sè!”
(questa frase diventò famosa in casa nostra tanto che ancora la usiamo:
voleva dire che la crescia si mangia da sola senza aggiungere altro)
e, rivolta a mia madre: “Questa è l’ultima volta che va da quegli spreconi,
non è così che si tirano su i figli”.
Il lato socialista di nonna era prepotentemente emerso:
io non andai più a trovare Aldino, tornai a far merenda con pane e zucchero,
ma almeno andavo in fondo al campo del nonno del Bociolo
a fare le capanne con le frasche in riva al fiume
e , quando arrivava Bongo, si mettevano le “paine” col vischio
per prendere i passeri e i lacci per le lucertole.
Vennero i sedici anni e tutti i miei compagni avevano il motorino,
ma io, Bongo e il Bociolo naturalmente no,
però  lavoravamo alacremente intorno alla vecchia lambretta di Pino, il padre del Bociolo,
per trasformarla in un go kart, che ovviamente non venne mai alla luce
e ancora la settimana scorsa ho trovato il manubrio nel fondo di mamma.
Aldino però s’era fatto comprare una Aermacchi 125
e con quella correva come un pazzo per le campagne
tanto che le donne quando sentivano il rumore correvano a togliere i figli dalla strada.

Era il periodo in cui cominciavamo a perdere le giornate intorno al biliardo del bar
e alla sera verso le sette si faceva vivo Aldino che con la moto faceva il giro di piazza,
Ondo si metteva sulla porta e quando lo vedeva urlava verso l’interno del bar:
“Arriva Profirio Pipirosa su Aermacchi!!”
Allora noi uscivamo e gli facevamo un applauso.
Una sera che era troppo freddo lo abbiamo guardato da dietro i vetri della porta,
lui ha fatto due giri di piazza, ma noi non siamo usciti
e da quella sera non ne abbiamo saputo più niente per un bel po’ di tempo.
C’è stato un periodo (un anno o due) che Aldino frequentava il bar e pagava da bere a tutti,
purché gli stessero intorno,
ma un giorno che si permise di passare avanti
a uno che era arrivato prima di lui,
Silvano gli  disse che, se voleva il caffè doveva andare al bar di Berdoli,
che quelli come lui stanno bene lì, perché “In questo bar gli amici non si comprano!”
(altra frase ormai famosa e inserita nel lessico cittadino),
Non gli era stato mai simpatico e aveva trovato una scusa per toglierselo di torno.
E Aldino non si vide più per un altro po’.
Di lui ho saputo che ha fatto l’università in una città grande, credo Milano,
ma non so che cosa abbia studiato,
che si è sposato con la Giuseppina, una nostra compagna che si sbatte da tutte le parti
e ha pure avuto un figlio o due.
Dicono che scrive libri o giornali, pare non esca mai di casa e non abbia amici,
 ma con i mezzi che ci sono ora, forse se n’è fatto qualcuno telematico.
Chissà che cavolo gli farà credere e che spiegazioni forbite darà su tutto,
perché lui sapeva tutto e quello che non sapeva se lo inventava
e poi chiedeva conferma alla madre che, ovviamente, confermava.
Mi accorgo ora  che non ho detto del padre.
Il sor Angeloni veniva al bar e stava spesso con noi fino a tardi anche se eravamo ragazzi,
perché lui, prima delle due di notte non andava mai a casa,
tanto, diceva, che là a casa sua, c’era quella lì col suo bamboccio…

Recentemente però ci siamo ritrovati con Aldino: era entrato in compagnia con noi
e aveva fatto anche una cura dimagrante, che per poco ci lascia le penne,
stava parecchio in disparte ed era un po’ chiuso,
sorrideva delle cazzate che facevamo a cui lui partecipava raramente,
ma questo è un’altra storia che vi racconterò in seguito
Nel frattempo ho rivisto il giudizio su Aldino, cresciuto sotto le sottane della madre
e, per questo, schivato dal padre e sono arrivato alla conclusione che
non dev’essere certo stato un bel crescere per lui!