La casa
dove sono nato e cresciuto é attaccata alla vecchia caserma dei vigili del
fuoco e di
conseguenza non ho nessun ricordo d’infanzia
che non sia legato ai pompieri.
All’età
di tre anni nonno Menchino mi chiese di sollevare una pompa a mano
ed io,
abbracciandola coi braccini che manco ci arrivavano,
la
sollevai per qualche centimetro. Nonno allora mi prese in braccio,
mi
portò dentro casa, mi scalzò,
poi,
appoggiandomi allo stipite della porta,
fece una
tacca col coltellino che portava sempre con sé
e poi con
la matita scrisse:
“Paolo 25
Ott 1952 alza 8 Kg”
Da quel
giorno si iniziò una tradizione che è continuata sempre.
Anche a
casa mia, coi miei figli, il giorno del compleanno ci si misura scalzi
nello
stipite della porta scrivendo nome e data.
Siamo
quattro fratelli e lo stipite della porta della saletta è pieno di segni,
qualcuno
si sovrappone, ma le date ci sono ancora tutte
e
rispettosamente schivate dalle imbiancature.
Nonna Gemma ogni tanto mi raccontava la storia della pompa:
Nonna Gemma ogni tanto mi raccontava la storia della pompa:
Quando nonno a ora di cena comunicò solennemente la faccenda
del sollevamento
della pompa, mamma chiese se la pompa era quella piccola,
lui si
produsse in una delle sue migliori finte incazzature
“Se ti
dico che pesa otto chili come fa a essere piccola, i-di-o-ta !
“
(sillabando
bene, nonno lo diceva così i-di-o-ta, e,
a
dimostrazione che dalle case mai nessuno se ne va del tutto,
a volte
ce lo diciamo anche noi così: i-di-o-ta).
Avevo
ormai dodic’anni, era nato Massimo e a casa non c’era posto per tutti quindi
io
dormivo nella camerata dei pompieri, la sera mettevo dentro la camionetta,
una
bellissima Willy americana verniciata di rosso fiammante col telone grigio,
e la
mattina la riportavo fuori.
Una volta
sola portai fuori anche il Dodge,
un camion
residuato bellico verniciato di rosso anche lui che tutti dicevano
che era
americano quindi potentissimo e di gran marca.
Era il
mese di agosto e un pazzo incendiario si aggirava per le campagne
a dare a
fuoco ai pagliai e non c’era un giorno di pace
e, appena
si sentiva squillare il telefono, i pompieri correvano a prepararsi
e
qualcuno urlava “ Palin la sirena! “
Allora mi
catapultavo su per le scale fino al terrazzo e mi attaccavo alla manovella per
suonare la sirena che richiamava i volontari.
I pompieri
partivano col Dodge (ormai tutta la città lo chiamava così
come se
fosse un cognome) e io rimanevo li a dare disposizioni ai volontari
per
mandarli con la camionetta dietro a loro.
Il primo
ad arrivare era Cinabri, vecchio già allora, che si metteva seduto,
a
cavalcioni della sedia coi bracci appoggiati sulla spalliera davanti al
telefono
per
rispondere ad eventuali altre chiamate.
Arrivava
sempre col cane, una bellissima setter bianca con sfumature marroni,
Martina,
che gli si accovacciava a fianco
e, finito
il trambusto, mi mettevo anch’io vicino a loro.
In quel
periodo cominciai a uscire coi pompieri e stavo alla pompa.
Loro mi
gridavano: “Acqua!” e io giravo la saracinesca,
“ Palin
prolunga “ e io, tutto da solo, chiudevo l’acqua, svitavo il tubo,
avvitavo
la prolunga alla pompa e anche al tubo
e poi
urlavo: “ Prontaaa “ e, al loro comando, ridavo acqua.
Insomma
ero preso e concentrato nel mio lavoro
e questa
mia attività era ormai risaputa tra gli amici.
La
domenica mattina nonno mi portava alla messa alle nove a San Domenico;
andavamo
nei sedili di legno dietro l’altare dove stavano gli uomini
e, a
volte, vedevo i miei compagni vicino alle loro madri,
laggiù
nei banchi delle donne.
Non
nascondo che questa cosa mi inorgogliva un po’
e sentivo
la stima dei miei compagni coi quali però non parlavo mai di questa faccenda
dei pompieri nemmeno se me lo chiedevano:
le
palline, le figurine Panini, i tappi a corona e il calcio erano ancora
argomenti troppo importanti per essere messi in secondo piano.
Avevo
tredic’anni e la passione per una chioma bionda mi rubava l’anima
finché un
giorno quella chioma si sedette vicino a me nella panchina del Pincio
che aveva
sostituito il vicolo e che i pomeriggi ci vedeva tutti insieme.
Giocando
con la bottiglia, tra le risa di tutti, mi arrivò un bacio sulla guancia,
non un
bacio fugace, come succedeva altre volte,
ma un
bacio del quale sento ancora le labbra.
Io che
diventavo matto solo a vederla di sfuggita
a quel
punto ero pronto per il manicomio, ma cosa dico!
La pazzia
non è niente in confronto, il cervello era troppo piccolo per contenere tutte
le sensazioni che ci giravano dentro.
Ed ero
ben cosciente della mia situazione mentale che me ne vergognavo anche
tant’è
vero che se mi chiedevano se fosse vero che andavo con la Marì
negavo
spudoratamente
Mi
immaginavo già sposato con prole e lei al mio fianco.
Gli
incontri si fecero giornalieri e ci scambiavamo perfino qualche parola
finché un
giorno la sentii chiamare dalla madre.
Lei
disse: “Mi chiama mia mamma”
ed io le
risposi quasi con un gioco di parole: “Come si chiama tua mamma?” “Martina” fu
la risposta e mi venne spontaneo dire: “Come la cagna di Gennari”
Ero
pentito già a metà frase, mi maledissi cento volte, ma ormai era detta.
Non la
vidi più e lo sconforto durò mesi.
Presi il
collegio in cui fui mandato anche quell’anno per indigenza familiare
come la
giusta punizione alla mia maleducazione
e anche
l’infarto che giunse trentacinque anni dopo
fu
probabilmente causato da quel terribile abbandono.
Gennari
poveretto morì qualche anno dopo e Martina
(il cane,
per carità non sbagliamoci) lo seguì dopo una settimana
Il fatto
sviluppò un dibattito cittadino,
perché
c’era chi voleva seppellire la Martina accanto al padrone,
e chi
inorridiva al sol pensiero.
A
dirimere la questione ci pensò don Filippo che dal pulpito,
alla
messa di mezzogiorno della domenica in duomo dichiarò
che il
cimitero era un posto sacro quindi non per cani.
La
mattina dopo, sul retro di un cartello di lamiera dove erano i prezzi dei gelati
che stava
attaccato al muro del C.R.A.L.
(Circolo
Ricreativo e Assistenza Lavoratori- (posto per operai comunisti))
scritto
con vernice rossa comparvero quattro parole:
“ DOVE
SEPPELLIREMO DON FILIPPO?”
La
scritta rossa spiccava con bei caratteri sulla lamiera
e se non
fosse stato per il significato quasi blasfemo delle parole
si
sarebbe dovuto premiare l’abile amanuense.
Lo
scandalo fu grandissimo
e la
gente passava apposta davanti al C.R.A.L per vedere il cartello.
Restò lì
per qualche giorno sorvegliato dagli avventori
finché
una notte, un anonimo figlio di prete lo staccò,
(i preti,
è risaputo, un figlio ce l'hanno a ogni cantone!).
I pompieri cambiarono caserma per una più grande,
il Dodge fu sostituito da un anonimo camion studiato
apposta per loro,
la mia adorata camionetta Willy scambiata con una Fiat Campagnola.
Dei miei tutori, padri, fratelli e maestri ormai solo
ricordi.
Damiani morì schiacciato dalla sua cinquecento mentre (si
dice) “guardava” gli animali steso a terra per non farsi vedere, io che lo
conoscevo bene so che Italo i tordi li vedeva bene solo allo spiedo e la lepre
sulle pappardelle,
la caccia è sempre stata la sua passione e le leggi che la
limitano la sua pena.
Bartoli, detto il pulcino andò in pensione ancora giovane ma nessuno se ne accorse perchè dal giorno della messa a riposo, tutti i giorni,
dalle
otto del mattino alle otto di sera andava in caserma
a fare da mangiare ai vecchi colleghi
fino al giorno che, stroncato da un infarto nottetempo,
non si fece più vedere lasciando tutti digiuni senza pranzo.
non si fece più vedere lasciando tutti digiuni senza pranzo.
Gobbi il comandante è morto qualche mese fa,
vedovo e
vecchissimo, si era sposato, dopo l’annullamento della sacra rota,
con la Suntina, una donna
piccolissima
che ogni volta che la vedevo mi veniva in mente il circo con la
nana più alta del mondo.
Era diplomato infermiere e una volta, con una operazione
durata quasi un’ora,
mi tolse dalla gola il manico ricurvo di un ramaiolo che
chissà come avevo ingoiato.
Mi ricordo che ero steso sulla piana di marmo del tavolo
della cucina dei pompieri,
il locale si andava riempiendo di gente accorsa per
l’evento,
era scesa anche la
Nice, la figlia zitella della maestra del piano di sopra
che siccome era signorina il padre non voleva frequentasse
i pompieri.
Lei ubbidiente non li frequentò e signorina morì.
Alla fine dell’operazione Gobbi si lavò le mani insangionate e uscì,
(non credo che se le fosse lavate anche prima)
tutti gli spettatori lo seguirono per complimentarsi,
io rimasi solo, abbandonato sul freddo marmo
nonna mi prese in braccio e mi portò a casa
col sangue che ancora mi usciva di bocca.
E’ morto, Gobbi, con una mano appoggiata su una chiappa della badante
che ormai da tempo se le lasciava benevolmente accarezzare
da quella mano
col mignolo ricurvo per lo scoppio di una bottiglia di
acqua viscì.
Piero, Giovannetti
Piero, il più bel pompiere del mondo
che sfrecciava sulla sua MV Agusta per la Flaminia dando da dire a
tutte le ragazze
è ormai su una sedia a rotelle e la paziente Egiziana lo
sposta da una finestra all’altra.
Di Ciampi ed Etiopici non so niente, ma il primo pare sia
morto in manicomio
e l’altro credo che aiuti il figlio che fa il falegname.
Asvero gode la pensione tra l’orto e i richiami per la
caccia da capanno,
la cosa che mi piaceva di lui era la Moto Guzzi Falcone
sulla quale ho fatto i viaggi più belli della mia vita,
nei posti che vedevo fotografati nell’atlante di mia sorella, passavo ore a
fare brrruuummm seduto,
steso sul serbatoio e mamma che si incazzava perché mi
viziavano.
Fece il militare nei pompieri, Asvero, in una città del nord
Fece il militare nei pompieri, Asvero, in una città del nord
e un giorno tornato in licenza suona il campanello di casa
la madre scende per le scale e quando arriva al pianerottolo
lui da sotto le grida:
“Mamma questa è la mia fidanzata,
la donna che un giorno sarà mia sposa”
Chissà poveretto quante volte avrà pensato alla frase giusta da dire alla madre!
La signora maestra da in cima alla rampa di scale risponde:
“Disgraziato! Stamattina è morto tuo padre e tu ti presenti con questa sguattera!”
Non ricordo come sia finita ricordo bvene però
che nonna corse sulle scale a tirarsi dentro casa la "sguattera"
che nonna corse sulle scale a tirarsi dentro casa la "sguattera"
e mamma mi trasferì di peso in cucina.
Gino era morto, un ictus lo aveva fulminato mentre si lavava
e cadendo aveva sbattuto la testa nel lavandino fracassando sia l’uno che l’altra.
Gino era il marito della maestra e di mestiere faceva il marito della maestra.
Qualche volta gli capitava di scrivere le lapidi con lo scalpello
ma la maggior parte del tempo lo passava a dormire nell’orto
o nascosto nel fondo da dove ogni tanto usciva qualche rumore tipico
da scalpellino solitario; praticamente scoreggiava come un cane.
Doveva essere anche uno previdente perché la lapide se l’era fatta da sè,
mancava solo la data di morte e per risparmiare gliel’hanno scritta a matita
tanto che dopo un paio di giorni non si leggeva già più.
tanto che dopo un paio di giorni non si leggeva già più.
Una mattina, mentre passeggiavo per i giardinetti leggendo
il giornale,
in uno degli ormai rarissimi ritorni in paese , la vedo davanti
a me,
m’ha visto anche lei? Spero di no ma non è bello che cambi
marciapiede,
abbasso la testa per immergermi nel giornale, mi passa di
fianco,
…via, ormai è passata…
una mano mi tocca la spalla, “Numa!”
mi giro col miglior sorriso che posso e, Cristo quant’è
ancora bella,
come potevo pensare che fosse per me, che cretino!
Qualche convenevole
e poi mi dice
“Ormai son passati quarant’anni ma ogni tanto mi viene in
mente”
“Che c’è Marì”
“A te ho dato un bacio,
ti ricordi che t’ho dato un bacio?”
“Beh, si, ma …eravamo
bambini”
“ E no, stavamo per diventare ragazzi, eravamo più che
bambini avevamo almeno tredic’anni, stasera vado a vedere, l’avevo scritto sul
diario e i diari li ho ancora tutti”
Ma come cavolo può pensare che me ne sia scordato!
Me l’ha dato su una guancia e mi è entrato nel cervello,
come la scordi una cosa così!
Mi prende sottobraccio e mi fa tornare indietro fino a
casa sua,
sorrido e non riesco a farmi scappare niente dalla bocca,
lei parla e io faccio si con la testa, mi vedo come se
fossi un altro,
mi vedo da dietro e vedo lei al mio fianco come fosse un
film, roba da matti,.
Davanti alla porta di casa mi saluta e io
“Ciao Marì, salutami tuo marito”
“ Certo, ora però basta di fare l’orso, fatti vedere ogni
tanto”.
Ma quale orso, è una vita che la schivo per vergogna, per
paura, per scemenza…
Oggi sono in paese perché è Pasqua e mangiamo da Massimo,
leggo il giornale mentre passeggio, guardo l’orologio,
mezzogiorno e trequarti, a st'ora s'esce dalla messa,
mezzogiorno e trequarti, a st'ora s'esce dalla messa,
alzo la testa, …ma guarda dove cazzo sono andato a
finire,
cambio marciapiede, alzo il giornale, ci caccio in mezzo
la testa
e penso che nessuno potrà riconoscermi, mi vedo da
davanti, come in un film,
bene, così va bene,
si vedono solo due mani che reggono L’Unità.