domenica 27 gennaio 2013

Marì e i pompieri (tutt'intero)

La casa dove sono nato e cresciuto é attaccata alla vecchia caserma dei vigili del fuoco e di conseguenza non ho nessun ricordo d’infanzia 
che non sia legato ai pompieri.
All’età di tre anni nonno Menchino mi chiese di sollevare una pompa a mano
ed io, abbracciandola coi braccini che manco ci arrivavano,
la sollevai per qualche centimetro. Nonno  allora mi prese in braccio,
 mi portò dentro casa, mi scalzò,
 poi, appoggiandomi allo stipite della porta,
fece una tacca col coltellino che portava sempre con sé
e poi con la matita scrisse:
“Paolo 25 Ott 1952 alza 8 Kg”
Da quel giorno si iniziò una tradizione che è continuata sempre.
Anche a casa mia, coi miei figli, il giorno del compleanno ci si misura scalzi
nello stipite della porta scrivendo nome e data.
Siamo quattro fratelli e lo stipite della porta della saletta è pieno di segni,
qualcuno si sovrappone, ma le date ci sono ancora tutte
e rispettosamente schivate dalle imbiancature.
Nonna Gemma ogni tanto mi raccontava la storia della pompa:
Quando nonno a ora di cena comunicò solennemente la faccenda
del sollevamento della pompa, mamma chiese se la pompa era quella piccola,
lui si produsse in una delle sue migliori finte incazzature
“Se ti dico che pesa otto chili come fa a essere piccola,   i-di-o-ta ! “
(sillabando bene, nonno lo diceva così i-di-o-ta,  e,
a dimostrazione che dalle case mai nessuno se ne va del tutto,
a volte ce lo diciamo anche noi così: i-di-o-ta).
Avevo ormai dodic’anni, era nato Massimo e a casa non c’era posto per tutti quindi
io dormivo nella camerata dei pompieri, la sera mettevo dentro la camionetta,
una bellissima Willy americana verniciata di rosso fiammante col telone grigio,
e la mattina la riportavo fuori.
Una volta sola portai fuori anche il Dodge,
un camion residuato bellico verniciato di rosso anche lui che tutti dicevano
che era americano quindi potentissimo e di gran marca.
Era il mese di agosto e un pazzo incendiario si aggirava per le campagne
a dare a fuoco ai pagliai e non c’era un giorno di pace
e, appena si sentiva squillare il telefono, i pompieri correvano a prepararsi
e qualcuno urlava “ Palin la sirena! “
Allora mi catapultavo su per le scale fino al terrazzo e mi attaccavo alla manovella per suonare la sirena che richiamava i volontari.
I pompieri partivano col Dodge (ormai tutta la città lo chiamava così
come se fosse un cognome) e io rimanevo li a dare disposizioni ai volontari
per mandarli con la camionetta dietro a loro.
Il primo ad arrivare era Cinabri, vecchio già allora, che si metteva seduto,
 a cavalcioni della sedia coi bracci appoggiati sulla spalliera davanti al telefono
per rispondere ad eventuali altre chiamate.
Arrivava sempre col cane, una bellissima setter bianca con sfumature marroni,
Martina, che gli si accovacciava a fianco
e, finito il trambusto, mi mettevo anch’io vicino a loro.
In quel periodo cominciai a uscire coi pompieri e stavo alla pompa.
Loro mi gridavano: “Acqua!” e io giravo la saracinesca,
“ Palin prolunga “ e io, tutto da solo, chiudevo l’acqua, svitavo il tubo,
avvitavo la prolunga alla pompa e anche al tubo
e poi urlavo: “ Prontaaa “ e, al loro comando, ridavo acqua.
Insomma ero preso e concentrato nel mio lavoro
e questa mia attività era ormai risaputa tra gli amici.
La domenica mattina nonno mi portava alla messa alle nove a San Domenico;
andavamo nei sedili di legno dietro l’altare dove stavano gli uomini
e, a volte, vedevo i miei compagni vicino alle loro madri,
laggiù nei banchi delle donne.
Non nascondo che questa cosa mi inorgogliva un po’
e sentivo la stima dei miei compagni coi quali però non parlavo mai di questa  faccenda dei pompieri nemmeno se me lo chiedevano:
le palline, le figurine Panini, i tappi a corona e il calcio erano ancora argomenti troppo importanti per essere messi in secondo piano.

Avevo tredic’anni e la passione per una chioma bionda mi rubava l’anima
finché un giorno quella chioma si sedette vicino a me nella panchina del Pincio
che aveva sostituito il vicolo e che i pomeriggi ci vedeva tutti insieme.
Giocando con la bottiglia, tra le risa di tutti, mi arrivò un bacio sulla guancia,
non un bacio fugace, come succedeva altre volte,
ma un bacio del quale sento ancora le labbra.
Io che diventavo matto solo a vederla di sfuggita
a quel punto ero pronto per il manicomio, ma cosa dico!
La pazzia non è niente in confronto, il cervello era troppo piccolo per contenere tutte le sensazioni che ci giravano dentro.
Ed ero ben cosciente della mia situazione mentale che me ne vergognavo anche
tant’è vero che se mi chiedevano se fosse vero che andavo con la Marì
negavo spudoratamente
Mi immaginavo già sposato con prole e lei al mio fianco.
Gli incontri si fecero giornalieri e ci scambiavamo perfino qualche parola
finché un giorno la sentii chiamare dalla madre.
Lei disse: “Mi chiama mia mamma”
ed io le risposi quasi con un gioco di parole: “Come si chiama tua mamma?” “Martina” fu la risposta e mi venne spontaneo dire: “Come la cagna di Gennari”
Ero pentito già a metà frase, mi maledissi cento volte, ma ormai era detta.
Non la vidi più e lo sconforto durò mesi.
Presi il collegio in cui fui mandato anche quell’anno per indigenza familiare
come la giusta punizione alla mia maleducazione
e anche l’infarto che giunse trentacinque anni dopo
fu probabilmente causato da quel terribile abbandono.
Gennari poveretto morì qualche anno dopo e Martina
(il cane, per carità non sbagliamoci) lo seguì dopo una settimana
Il fatto sviluppò un dibattito cittadino,
perché c’era chi voleva seppellire la Martina accanto al padrone,
e chi inorridiva al sol pensiero.
A dirimere la questione ci pensò don Filippo che dal pulpito,
alla messa di mezzogiorno della domenica in duomo dichiarò
che il cimitero era un posto sacro quindi non per cani.
La mattina dopo, sul retro di un cartello di lamiera dove erano i prezzi dei gelati
che stava attaccato al muro del C.R.A.L.
(Circolo Ricreativo e Assistenza Lavoratori- (posto per operai comunisti))
scritto con vernice rossa comparvero quattro parole:
“ DOVE SEPPELLIREMO DON FILIPPO?”
La scritta rossa spiccava con bei caratteri sulla lamiera
e se non fosse stato per il significato quasi blasfemo delle parole
si sarebbe dovuto premiare l’abile amanuense.
Lo scandalo fu grandissimo
e la gente passava apposta davanti al C.R.A.L per vedere il cartello.
Restò lì per qualche giorno sorvegliato dagli avventori
finché una notte, un anonimo figlio di prete lo staccò,
(i preti, è risaputo, un figlio ce l'hanno a ogni cantone!).

I pompieri cambiarono caserma per una più grande,
il Dodge fu sostituito da un anonimo camion studiato apposta per loro,
la mia adorata camionetta Willy scambiata con una Fiat Campagnola.
Dei miei tutori, padri, fratelli e maestri ormai solo ricordi.
Damiani morì schiacciato dalla sua cinquecento mentre (si dice) “guardava” gli animali steso a terra per non farsi vedere, io che lo conoscevo bene so che Italo i tordi li vedeva bene solo allo spiedo e la lepre sulle pappardelle,
la caccia è sempre stata la sua passione e le leggi che la limitano la sua pena.
Bartoli, detto il pulcino andò in pensione ancora giovane ma nessuno se ne accorse perchè dal giorno della messa a riposo, tutti i giorni, 
dalle otto del mattino alle otto di sera andava  in caserma 
a fare da  mangiare ai vecchi colleghi
fino al giorno che, stroncato da un infarto nottetempo,
non si fece più vedere lasciando tutti digiuni senza pranzo.
Gobbi il comandante è morto qualche mese fa, 
vedovo e vecchissimo, si era sposato, dopo l’annullamento della sacra rota, 
con la Suntina, una donna piccolissima 
che ogni volta che la vedevo mi veniva in mente il circo con la nana più alta del mondo. 
Era diplomato infermiere e una volta, con una operazione durata quasi un’ora,
mi tolse dalla gola il manico ricurvo di un ramaiolo che chissà come avevo ingoiato.
Mi ricordo che ero steso sulla piana di marmo del tavolo della cucina dei pompieri,
il locale si andava riempiendo di gente accorsa per l’evento,
era scesa anche la Nice, la figlia zitella della maestra del piano di sopra
che siccome era signorina il padre non voleva frequentasse i pompieri.
Lei ubbidiente non li frequentò e signorina morì.
Alla fine dell’operazione Gobbi si lavò le mani insangionate e uscì,
(non credo che se le fosse lavate anche prima)
tutti gli spettatori lo seguirono per complimentarsi,
io rimasi solo, abbandonato sul freddo marmo
nonna mi prese in braccio e mi portò a casa
col sangue che ancora mi usciva di bocca.
E’ morto, Gobbi, con una mano appoggiata su una chiappa della badante
che ormai da tempo se le lasciava benevolmente accarezzare da quella mano
col mignolo ricurvo per lo scoppio di una bottiglia di acqua viscì.
Piero,  Giovannetti Piero, il più bel pompiere del mondo
che sfrecciava sulla sua MV Agusta per la Flaminia dando da dire a tutte le ragazze
è ormai su una sedia a rotelle e la paziente Egiziana lo sposta da una finestra all’altra.
Di Ciampi ed Etiopici non so niente, ma il primo pare sia morto in manicomio
e l’altro credo che aiuti il figlio che fa il falegname.
Asvero gode la pensione tra l’orto e i richiami per la caccia da capanno,
la cosa che mi piaceva di lui era la Moto Guzzi Falcone
sulla quale ho fatto i viaggi più belli della mia vita, nei posti che vedevo fotografati nell’atlante di mia sorella, passavo ore a fare brrruuummm seduto,
steso sul serbatoio e mamma che si incazzava perché mi viziavano.
Fece il militare nei pompieri, Asvero, in una città del nord
e un giorno tornato in licenza suona il campanello di casa
la madre scende per le scale e quando arriva al pianerottolo
lui da sotto le grida:
“Mamma questa è la mia fidanzata,
la donna che un giorno sarà mia sposa”
Chissà poveretto quante volte avrà pensato alla frase giusta da dire alla madre!
La signora maestra da in cima alla rampa di scale risponde:
“Disgraziato! Stamattina è morto tuo padre e tu ti presenti con questa sguattera!”
Non ricordo come sia finita ricordo bvene però
che nonna corse sulle scale a tirarsi dentro casa la "sguattera"
e mamma mi trasferì di peso in cucina.
Gino era morto, un ictus lo aveva fulminato mentre si lavava
e cadendo aveva sbattuto la testa nel lavandino fracassando sia l’uno che l’altra.
Gino era il marito della maestra e di mestiere faceva il marito della maestra.
Qualche volta gli capitava di scrivere le lapidi con lo scalpello
ma la maggior parte del tempo lo passava a dormire nell’orto
o nascosto nel fondo da dove ogni tanto usciva qualche rumore tipico 
da scalpellino solitario; praticamente scoreggiava come un cane.
Doveva essere anche uno previdente perché la lapide se l’era fatta da sè,
mancava solo la data di morte e per risparmiare gliel’hanno scritta a matita
tanto che dopo un paio di giorni non si leggeva già più.

Una mattina, mentre passeggiavo per i giardinetti leggendo il giornale,
in uno degli ormai rarissimi ritorni in paese , la vedo davanti a me,
m’ha visto anche lei? Spero di no ma non è bello che cambi marciapiede,
abbasso la testa per immergermi nel giornale, mi passa di fianco,
…via, ormai è passata…
una mano mi tocca la spalla, “Numa!”
mi giro col miglior sorriso che posso e, Cristo quant’è ancora bella,
come potevo pensare che fosse per me, che cretino!
Qualche convenevole  e poi mi dice
“Ormai son passati quarant’anni ma ogni tanto mi viene in mente”
“Che c’è Marì”
“A te ho dato un bacio,   ti ricordi che t’ho dato un bacio?”
“Beh, si,  ma …eravamo bambini”
“ E no, stavamo per diventare ragazzi, eravamo più che bambini avevamo almeno tredic’anni, stasera vado a vedere, l’avevo scritto sul diario e i diari li ho ancora tutti”
Ma come cavolo può pensare che me ne sia scordato!
Me l’ha dato su una guancia e mi è entrato nel cervello, come la scordi una cosa così!
Mi prende sottobraccio e mi fa tornare indietro fino a casa sua,
sorrido e non riesco a farmi scappare niente dalla bocca,
lei parla e io faccio si con la testa, mi vedo come se fossi un altro,
mi vedo da dietro e vedo lei al mio fianco come fosse un film, roba da matti,.
Davanti alla porta di casa mi saluta e io
“Ciao Marì, salutami tuo marito”
“ Certo, ora però basta di fare l’orso, fatti vedere ogni tanto”.
Ma quale orso, è una vita che la schivo per vergogna, per paura, per scemenza…

Oggi sono in paese perché è Pasqua e mangiamo da Massimo,
leggo il giornale mentre passeggio, guardo l’orologio,
mezzogiorno e trequarti, a st'ora s'esce dalla messa,
alzo la testa, …ma guarda dove cazzo sono andato a finire,
cambio marciapiede, alzo il giornale, ci caccio in mezzo la testa
e penso che nessuno potrà riconoscermi, mi vedo da davanti, come in un film,
bene, così va bene,
si vedono solo due mani che reggono L’Unità.

domenica 20 gennaio 2013

Marì e i pompieri (prima parte)



La casa dove sono nato e cresciuto é attaccata alla vecchia caserma dei vigili del fuoco
e di conseguenza non ho nessun ricordo d’infanzia che non sia legato ai pompieri.
All’età di tre anni nonno Menchino mi chiese di sollevare una pompa a mano
ed io, abbracciandola coi braccini che manco ci arrivavano,
la sollevai per qualche centimetro. Nonno  allora mi prese in braccio,
 mi portò dentro casa, mi scalzò,
 poi, appoggiandomi allo stipite della porta,
fece una tacca col coltellino che portava sempre con sé
e poi con la matita scrisse:
“Paolo 25 Ott 1952 alza 8 Kg”
Da quel giorno si iniziò una tradizione che è continuata sempre.
Anche a casa mia, coi miei figli, il giorno del compleanno ci si misura scalzi
nello stipite della porta scrivendo nome e data.
Siamo quattro fratelli e lo stipite della porta della saletta è pieno di segni,
qualcuno si sovrappone, ma le date ci sono ancora tutte
e rispettosamente schivate dalle imbiancature.
A ora di cena, quando nonno comunicò solennemente la faccenda
del sollevamento della pompa e mamma chiese se la pompa era quella piccola,
nonno si produsse in una delle sue migliori finte incazzature
“Se ti dico che pesa otto chili come fa a essere piccola,   i-di-o-ta ! “
(sillabando bene, nonno lo diceva così i-di-o-ta,  e,
a dimostrazione che dalle case mai nessuno se ne va del tutto,
a volte ce lo diciamo anche noi così: i-di-o-ta).
Avevo ormai dodic’anni, era nato Massimo e a casa non c’era posto per tutti quindi
io dormivo nella camerata dei pompieri, la sera mettevo dentro la camionetta,
una bellissima Willy americana verniciata di rosso fiammante col telone grigio,
e la mattina la riportavo fuori. Una volta sola portai fuori anche il Dodge,
un camion residuato bellico verniciato di rosso anche lui che tutti dicevano
che era americano quindi potentissimo e di gran marca.
Era il mese di agosto e un pazzo incendiario si aggirava per le campagne
a dare a fuoco ai pagliai e non c’era un giorno di pace
e, appena si sentiva squillare il telefono, i pompieri correvano a prepararsi
e qualcuno urlava “ Palin la sirena! “
Allora mi catapultavo su per le scale fino al terrazzo e mi attaccavo alla manovella per suonare la sirena che richiamava i volontari.
I pompieri partivano col Dodge (ormai tutta la città lo chiamava così
come se fosse un cognome) e io rimanevo li a dare disposizioni ai volontari
per mandarli con la camionetta dietro a loro.
Il primo ad arrivare era Gennari, vecchio già allora, che si metteva seduto,
 a cavalcioni della sedia coi bracci appoggiati sulla spalliera davanti al telefono
per rispondere ad eventuali altre chiamate.
Arrivava sempre col cane, una bellissima setter bianca con sfumature marroni, Martina, che gli si accovacciava a fianco
e, finito il trambusto, mi mettevo anch’io vicino a loro.
In quel periodo cominciai a uscire coi pompieri e stavo alla pompa.
Loro mi gridavano: “Acqua!” e io giravo la saracinesca,
“ Palin prolunga “ e io, tutto da solo, chiudevo l’acqua, svitavo il tubo,
avvitavo la prolunga alla pompa e anche al tubo
e poi urlavo: “ Prontaaa “ e, al loro comando, ridavo acqua.
Insomma ero preso e concentrato nel mio lavoro
e questa mia attività era ormai risaputa in giro.
La domenica mattina nonno mi portava alla messa alle nove a San Domenico; andavamo nei sedili di legno dietro l’altare dove stavano gli uomini
e, a volte, vedevo i miei compagni vicino alle loro madri,
laggiù nei banchi delle donne.
Non nascondo che questa cosa mi inorgogliva un po’
e sentivo la stima dei miei compagni coi quali però non parlavo mai di questa  faccenda dei pompieri nemmeno se me lo chiedevano:
le palline, le figurine Panini, i tappi a corona e il calcio erano ancora argomenti troppo importanti per essere messi in secondo piano.

Avevo tredic’anni e la passione per una chioma bionda mi rubava l’anima
finché un giorno quella chioma si sedette vicino a me nella panchina del Pincio
che aveva sostituito il vicolo e che i pomeriggi ci vedeva tutti insieme.
Giocando con la bottiglia, tra le risa di tutti, mi arrivò un bacio sulla guancia,
non un bacio fugace, come succedeva altre volte,
ma un bacio del quale sento ancora le labbra.
Io che diventavo matto solo a vederla di sfuggita
a quel punto ero pronto per il manicomio, ma cosa dico!
La pazzia non è niente in confronto, il cervello era troppo piccolo per contenere tutte le sensazioni che ci giravano dentro.
Ed ero ben cosciente della mia situazione mentale che me ne vergognavo anche
tant’è vero che se mi chiedevano se fosse vero che andavo con la Marì
negavo spudoratamente
Mi immaginavo già sposato con prole e lei al mio fianco.
Gli incontri si fecero giornalieri e ci scambiavamo perfino qualche parola
finché un giorno la sentii chiamare dalla madre.
Lei disse: “Mi chiama mia mamma”
ed io le risposi quasi con un gioco di parole: “Come si chiama tua mamma?” “Martina” fu la risposta e mi venne spontaneo dire: “Come la cagna di Gennari”
Ero pentito già a metà frase, mi maledissi cento volte, ma ormai era detta.
Non la vidi più e lo sconforto durò mesi.
Presi il collegio in cui fui mandato anche quell’anno per indigenza familiare
come la giusta punizione alla mia maleducazione
e anche l’infarto che giunse trentacinque anni dopo
fu probabilmente causato da quel terribile abbandono.
Gennari poveretto morì qualche anno dopo e Martina
(il cane, per carità non sbagliamoci) lo seguì dopo una settimana
Il fatto sviluppò un dibattito cittadino,
perché c’era chi voleva seppellire la Martina accanto al padrone,
e chi inorridiva al sol pensiero.
A dirimere la questione ci pensò don Filippo che dal pulpito,
alla messa di mezzogiorno della domenica in duomo dichiarò
che il cimitero era un posto sacro quindi non per cani.
La mattina dopo, sul retro di un cartello di lamiera dove erano i prezzi dei gelati
che stava attaccato al muro del C.R.A.L.
(Circolo Ricreativo e Assistenza Lavoratori- (posto per operai comunisti))
scritto con vernice rossa comparvero quattro parole:
“ DOVE SEPPELLIREMO DON FILIPPO?”
La scritta rossa spiccava con bei caratteri sulla lamiera
e se non fosse stato per il significato quasi blasfemo delle parole
si sarebbe dovuto premiare l’abile amanuense.
Lo scandalo fu grandissimo
e la gente passava apposta davanti al C.R.A.L per vedere il cartello.
Restò lì per qualche giorno sorvegliato dagli avventori
finché una notte, un anonimo figlio di prete lo staccò,
(i preti, è risaputo, un figlio connivente lo trovano a ogni cantone!).

P.S. segue la prossima settimana

lunedì 7 gennaio 2013

Dottore fammi fare un altro giro

“Ciao Robi, ci vediamo domenica prossima”
E così anche questa domenica è passata e domani si lavora.
Roberto è il mio medico e siamo stati tutto il pomeriggio in giro
è un amico che ho ritrovato in città dove è venuto prima di me
stavamo insieme da ragazzi là in paese e a quattordic’anni lui è andato via
e quando son venuto qui l’ho preso come dottore;
tanto nudo m’aveva già visto tante volte e non m’andava di farmi vedere da altri,
perché è vero che sono sboccacciato ma non mi va di farmi vedere nudo da sconosciuti.
Allora, dicevo, ‘sto pomeriggio di fine inverno con un freddo che m’è entrato negli ossi
l’abbiamo passato con lui e la ragazza che ci sta insieme
da quando quella matta della moglie è andata via di casa.
“Oh Bru, st’anno manco un raffreddore”
“Valà che ancora non siamo fuori, sei sempre in tempo a prenderlo”
L’ascensore arriva e appena aperta la porta sento una fitta all’ascella sinistra.
Cazzo che male, mi metto su una poltrona, ma no, questo è un dolore da letto
tolgo il cappotto e vado in camera: appena sdraiato una pressione al petto.
“Merda, l’infarto! Bru, Bru chiama l’ambulanza che c’ho un infarto”
“Non ricominciare con le tue cazzate”
Porca troia vuoi vedere che mi tocca crepare per uno scherzo…
Era successo che giorni avanti mi ero presentato con la bocca storta
e le avevo fatto credere che avevo un ictus, lei c’ha creduto e quando
mi son messo a ridere s’è incazzata come una bestia e s’è messa a piangere
prendendomi a cazzotti.
“Bru davvero, non fare la scema è un infarto vero!”
S’è affacciata alla porta della camera e deve avermi visto brutto un bel po’,
perché è corsa al telefono a chiamare il 118.
Però adesso non fa più male, è meglio che vada incontro all’ambulanza
e allora mi faccio accompagnare da mio figlio e prendiamo l’ascensore,
Mi gira la testa e…
“ Porca vacca è finita”
“Che cazzo dici”
Mi sento cadere a terra.

Adesso son qui sul pianerottolo con un figlio che mi tiene le gambe in alto
E l’altro che mi prende a schiaffi,
“Oh bà, sta sveglio” e giù che mena
“Cazzo, fai male” “ Si ma tu sta sveglio”
Passa la Gatti, la prof di francese del piano di sopra e si mette le mani sulla testa
e urla scappando spaurita,
devo essere messo male parecchio se una brutta come lei ha paura di me!
Eccoli, arrivano quelli dell’ambulanza e non fanno in tempo a vedermi
che già m’infilano un ago; vedo annebbiato, forse l’ho scampata.
Nebbia, nebbia fitta e formicolio dappertutto,
pare che tutte le cellule del corpo si siano messe a vibrare
e la Bru che non voleva crederci e per poco non mi tocca crepare
“Ride, sta ridendo, è vigile” o idiota
“ Come si chiama? Ci dica il suo nome”
“Un altro giro dottore, fammi fare un altro giro”
“Ci dica il suo nome”
“Che cazzo ci fai col mio nome l’hai da scrivere sulla lapide?”
“Reagisce, è vigile “
“Ho bisogno che mi dica come si chiama, me lo dica suvvia faccia il bravo”
Gli dico che il formicolio cala, adesso lo sento solo sopra,
dal pisello in su ma quello insiste col nome.
Vuoi vedere che si sono sbagliati e m’hanno portato all’ufficio anagrafe!
“ Ride, è vigile” oppure è scemo penso io.
Mamma mia che nebbia e che mal di testa!
Mi sa che m’han portato in un ospedale della val Padana,
nebbia fitta dappertutto, ma non a vista, dentro la testa,
è come vivere in un mondo annebbiato, un’ovatta che tiene tutto sospeso
Una alla volta le infermiere se ne vanno, una mi si china davanti
e da sotto il grembiule sbucano due bocce della madonna.
Speriamo che questa resti. No, va via anche lei e mi lasciano solo
con una telecamera in fondo al letto e tubi dappertutto
manco m’avesse curato un idraulico!
Il formicolio piano piano svanisce, adesso lo sento solo sulle labbra
meno male, avevo paura che rimanesse per sempre,
ma per sempre quanto, ce la faccio o no? Che mal di testa!
Quello voleva solo sapere il mio nome, mica m’ha detto se campo.
Giro la testa e vedo la porta, la nebbia non c’è più e dal vetro si vede la luce
e ogni tanto una testa che passa, devono essere i miei che aspettano di là.
Oddio che altro è successo?  Arriva un altro dottore, “Come si sente”
“Come ha detto?”  e lui ripete più forte “Come si sente”
Madonna, mi vogliono morto e mi hanno mandato il dottore più idiota del reparto,
come si fa a non capire l’ironia dell’infartuato l’avranno pur scritta sui libri.
“Un leone, a che ora si tromba?”
“Farò entrare i suoi parenti, ma solo per un minuto”
Fanno entrare i ragazzi e poi la Bru, uno alla volta.
“ Falli studiare, magari vendi tutto ma non farli smettere di studiare”
Io speravo di farcela, e non so mica perché ho detto così,
certo la frase era bella e potevo crepare tranquillo che avrei fatto un figurone,
già me l’immaginavo: al bar in paese non si sarebbe parlato d’altro,
“E’ morto pensando ai figli”
“ Che bella morte!”
Bella un cazzo, la morte è brutta, una gran nebbia e un mal di testa che morde.

“Come sta, ha ancora il formicolio?”
“No, ho mal di testa”
“E’ normale”
È la bocciona che ogni tanto entra e viene a vedermi, deve essere del turno di notte
Come si fa a morire lasciandosi alle spalle tanta grazia di Dio!
Son costretto a campare, questa la voglio vedere anche di giorno,
qui dentro con sta luce verde non si vede niente, sarò maniaco ma vedo bene solo le bocce.
“Domani la portiamo in reparto, ormai non c’è più pericolo
e può uscire dalla terapia intensiva”

Il mal di testa continua, non finisce mai ma tutti dicono che è normale,
sono i vasodilatatori che lo fan venire per adesso va bene così, col tempo passerà,
son passati un po’ di giorni, non so quanti ma occhio e croce una settimana,
tutti i giorni viene la Bru ma la fanno stare poco, io ho bisogno di lavarmi
e loro dicono che lo può fare un’infermiera.
“No, a me mi lava mia moglie, il bidet da una infermiera non me lo faccio fare”
“Se non si decide a star tranquillo il bidet glielo fa il beccamorto”
Non vedo l’ora di uscire da qui.
Viene Massimo il mio collega e mi porta i saluti degli altri
“Il padrone vuol sapere quando torni”
“ Che cazzo ne so, se l’infarto veniva a lui venivo a lavorare tutti i giorni”
Mi si avvicina un dottore: è quello che mi ha preso per primo,
dice che non gli era mai capitato un paziente che rideva
e vuol sapere perché volevo fare un altro giro.
“In moto dottore, chiedevo un altro giro in moto”
“Lei deve essere pazzo”
Sarà anche vero ma adesso siamo diventati amici,
se non vado a visitarmi mi chiama lui e mi fa l’elettrocardiogramma da sforzo tutti gli anni,
e vuol venire in barca ma non ha mai tempo.
Forse è vero che ho un po’ di pazzia:
avevo tutti i motivi del mondo per pensare alla famiglia che avrei lasciato,
alla vita che finiva e chiedevo di fare un ultimo giro in moto,
ma la testa andava lì, alla mia moto e forse è la cosa più cara che ho
visto che la pensavo in punto di morte oppure pensavo a lei perché sapevo che sarei vissuto.
Bho, va a capire cosa mi girava per la testa,
quel che so è che adesso mi fa male “E’ normale”: fanculo.
Finalmente a casa, non mi pare nemmeno la mia, mi sembra di essere ospite
e la Bru che mi gira intorno e ha preso le ferie per stare con me. Oddio no!
Mi fa le punture nella pancia e pare perfino contenta di farle.
Mi viene in mente che per una come lei il miglior marito
è un invalido che lo mette dove vuole e gli fa fare quello che gli pare.
Dalla fabbrica mi mandano i progetti da finire e io sto lì al computer tutto il giorno a disegnare
e lei che si lamenta che lavoro invece di guarire,
ma è il lavoro che mi fa guarire e mi dà speranza di essere ancora come prima.

Oggi torno in ospedale, mi fanno l’angioplastica, arriva un infermiere e mi mette in piedi
su un lenzuolo steso a terra, mi fa tirare giù le mutande e mi rade tutto
dalle caviglie fino al collo, mi guardo e…oddio che brutto,
non credevo che una volta spelato fosse così brutto, non mi pare nemmeno il mio.
Chissà se c’è una lozione per far crescere i peli alla svelta,
un pisello così mi vergogno anche di portarlo a pisciare.

Finalmente lei torna a lavorare e la mattina mi passa più alla svelta,
lavoro un po’, faccio i letti, preparo da mangiare…
Son passate quattro settimane e mi pare di andare molto meglio,
faccio qualche passeggiata e anche un po’ di ginnastica.
E’ domenica e stamattina vado in garage: lei è lì e pare che m’aspetta,
le tolgo il telo da sopra, l’ultima volta non l’ho pulita bene e allora mi metto a pulirla,
passo lo straccio tra le alette della testata, un po’ sui cerchi,
poi ci salgo e quasi quasi… ma sì, solo il giro dell’isolato, al primo colpo parte.
Appena sono in strada la sento come se l’avessi sempre avuta sotto il sedere
e allora si va; prendo la nazionale e vado; lei pare capisca e è docile e leggera,
pieghe dolci e le marce che entrano col pensiero, su fino a Bocca Serriola
dove tutte le domeniche mattina c’è un raduno.
Si arriva lì e di solito si prende una fetta di pane casereccio col prosciutto e mezzo bianco,
oggi non prendo niente, sento un rumore che viene su, riconosco il suono
si sente forte e poi s’attenua, riduce nelle curve, quarta, terza, un paio di seconde incazzate,
è la nove nove nove di quello di Umbertide, non so come si chiama, ma ci incontriamo lì,
e si mangia e si beve insieme facendo due chiacchiere.
“Oh, è un mese che manchi che cazzo hai fatto?”
“Niente, ho avuto da fare”
“Allora non sei nuto, hai voglia io a aspettatte!”
“Vado via subito, ci vediamo la prossima settimana. Ciao”
Torno a casa pensando che uno che non sa il mio nome,
non sa niente di me, mi cerca e m’aspetta per mangiare un pezzo di pane insieme,
se morivo chissà quanto avrebbe aspettato!
Torno piano, la strada è un bigliardo e mentre faccio le curve
l’aria mi passa sotto gli occhiali e porta le lacrime fino alle orecchie.

Domani torno al lavoro, non ne posso più di stare a casa,
loro non vogliono.
Generali, il dottore, dice: “Faccia come crede, la salute è la sua”.
Se continuo così mi rimbecillisco, ho bisogno di lavorare e sentirmi utile per guarire.
Guarire poi da cosa? Mica son malato: l’infarto è un incidente non una malattia.
I colleghi intorno che mi fan domande e gli operai che li sento contenti del mio ritorno.
Qualche volta li strapazzo ma loro sanno che con me son protetti.
Lo sapevo che l’accoglienza sarebbe stata calorosa, ma questo è troppo:
le donne dell’imballo mi abbracciano, la Guglielmina piange e mi bacia
ci conosciamo da un sacco d’anni, da giovane era matta come un cavallo
e con la Gattona facevano tutte le discoteche della riviera
poi la Gatta ha avuto un figlio che non sa nemmeno lei da chi
e allora si son calmate e hanno messo su famiglia.
Enzo mi dice che ha dovuto imparare a programmare la foratrice a controllo numerico
perché quei coglioni dell’ufficio non lo sapevano fare,
(per gli operai quelli che stanno in ufficio son tutti coglioni).
Dalla verniciatura esce Giustino che pare un puffo, stamattina vernicia il blu:
riesce a mettersi più vernice addosso che sui pannelli
Il Mago mi fa vedere la mano fasciata con una stecca che tiene dritte due dita
“E’ stato quell’imbecille di Achille col muletto
potevo prendere due settimane di infortunio
ma lei (io) non c'era e qui c'è da fare e allora non ho fatto neanche la denuncia”
Prima o poi doveva succedere son sempre lì a litigare su come caricare la roba.
Lo chiamiamo Mago perché fa il mago davvero: a casa c’ha l’altarino
con tutti i simboli che non so cosa sono e il sabato la gente va a casa sua
a farsi dire le fregnacce da lui e le dice così bene che tutti ci credono.
Il venerdì i compagni lo prendono in giro e gli dicono che domattina deve fare gli straordinari
allora lui viene da me e mi dice che c’ha gli appuntamenti e non può venire
io la faccio cadere dall’alto e alla fine gli dico che non importa,
lui se ne va ringraziando e camminando all’indietro
e prima di chiudere la porta fa anche l’inchino.
Il padrone mi viene a trovare in ufficio mi chiede se ci vorrà molto a tornare al ritmo di prima.

Son passati otto mesi, tutto ormai è tornato normale ma io sento che qualcosa non va,
non si può morire prima di aver finito i sogni.
C’è qualcosa che devo fare ed è ora di farlo:
i progetti son finiti, il modello nuovo è uscito e si stanno facendo le prime consegne,
il catalogo è venuto bene, ho passato l’ultimo mese nello studio fotografico,
stare al buio là dentro è una bella fatica, ma son contento.
Sono le sei, scanso la sedia, mi alzo e vado nell’ufficio del padrone
consegno la lettera lui mi guarda apre e legge

Con la presente comunico le mie dimissioni
che saranno regolate nei tempi e nei modi stabiliti dal C.C.N.L.
Cordialità

Alza la testa e mi dice:
“Perché?”
“Sono stanco di star qui”
“Quando vuoi andar via”
“Da stasera”
“Da chi vai a lavorare?”
“Non vado da altri, faccio qualcosa da solo”
“Allora ti lascio andare.
Quando ho bisogno ti chiamo ma tu vieni a trovarmi ogni tanto
e qui un posto per te c’è sempre”
“Va bene, ciao”
Torno in ufficio chiamo Massimo e la Manuela e glielo dico
Lui mi guarda incredulo, lei si mette a piangere che non si consola
si soffia il naso in un fazzoletto che pare un francobollo
e siccome non gli basta si passa le maniche della camicia sotto il naso.
E’ con me da otto anni, quando l’ho assunta ne aveva sedici e adesso ha un figlio.
Gli operai non li vado a salutare, se lo faccio ho paura di non reggere alle lacrime;
il padrone mi ha sempre accusato di parteggiare troppo per loro
e devo ammettere che non aveva tutti i torti, ma che ci posso fare
per me gli operai son sacri, è lui che non capisce il valore degli uomini.
Torno a casa in macchina e ho un gran senso di sollievo sono leggero e felice,
spingo il cd nella fessura e mi metto a cantare a squarciagola
Motociclettaa  dieci accapi
Tutta cromata
È tua se dici siiii.