lunedì 24 settembre 2012

Viturin



Il carcere era dentro il palazzo del comune,
bella costruzione medievale in pietra
in parte modificata da Francesco di Giorgio Martini alla fine del ‘400.
Le finestre con le inferriate davano su un cortile interno
a cui si accedeva da un portone sempre aperto
o almeno bastava spingere un po’ più forte per aprirlo,
le poche celle non erano occupate quasi mai
e quelle rare volte che c’era qualcuno
erano inquilini accusati di schiamazzi notturni dovuti a ubriachezza
e comunque il ceto degli avventori era davvero infimo
perché figuriamoci se  era tollerabile che colà fosse alloggiato un benestante!
A volte c’erano dei disgraziati che soggiornavano per qualche mese
per ruberie tra contadini o villanie del genere.
Uno di questi era Viturin, condannato per gravi reati
ai danni del padrone del podere
sul quale si spaccava la schiena lui e il resto della famiglia.
Praticamente aveva preso una gallina e il padrone lo denunciò.
Hai voglia Vitturin a dire che era sua,
il Pretore credette al padrone e lui finì in cella come un frate penitente.
Per noi bamboccetti la notizia del carcerato,
descritto da tutti come un ladrone farabutto abituale, fu una vera manna.
Tutti i giorni, all’uscita da scuola, si passava nel vicolo tra san Domenico e il comune
dove c’erano i pisciatoi e nel passare ci si buttava dentro a spintoni
a volte nella foga di spingersi ce ne cascavano anche due o tre
allora si scappava di corsa per paura della vendetta.
All’uscita di scuola, dicevo, si andava davanti al carcere,
si apriva spingendo forte e in silenzio si andava nello spigolo dietro al portone
dove c’erano vere montagne di cacca dei piccioni,
si facevano delle palle come fosse neve
e quando ne avevamo confezionate un paio a testa si tiravano nella cella di Viturin
urlando a squarciagola tutto quello che ci veniva in mente:
“Ladro” “Delinquente” “Assassino”…
Le palle si frangevano sulle inferriate,
ma qualcuna entrava dritta in cella dalla finestra aperta;
allora si urlava ancora più forte: “E' la mia!” “No, è la mia”
La diatriba poteva sfociare facilmente in una lite collettiva,
perché c’era chi dava ragione all’uno o all’altro
ma al momento non si poteva perder tempo perché Ernestino, il guardiano del carcere,
scendeva le scale di corsa e con urla inumane ci rincorreva;
oddio non rincorreva molto perché era zoppo
quindi avevamo anche il tempo di fargli qualche pernacchia prima di scappare.
Successe un giorno che Viturin all’ora del pasto riuscì a sgattaiolare dalla porta e scappò via. Ernestino, pensando che la fuga dipendesse dalla pessima qualità del rancio,
gli urlò dietro:“Viturin arnit v’ darem l’ummid”
Da in fondo alla scala il fuggiasco risponde:“Pén e cpolla a chesa mia”
Ernestino ormai disperato gli grida ancora:“Viturin arnit, m fèt perd el post”
Ormai Viturin aveva guadagnato il portone,
ma in un lampo di genialità ricaccia dentro la testa nel cortile e grida:“Pia ‘l mia!”.
La traduzione non rende, ma per far capire anche ai non autoctoni la scrivo lo stesso.
“Tornate Viturin vi daremo l’umido”
“Pane e cipolla a casa mia”
“Tornate Viturin, mi fate perdere il posto”
“Prendi il mio!”

La notizia della fuga di Viturin scosse il paese
e la descrizione di Ernestino ormai era di dominio pubblico:
se ne parlava nei bar e nelle barberie,
noti luoghi in cui si decideva su questioni politiche e sociali
finché venne a galla il fatto che
i bambini andavano a tirare merda di piccione nella cella del “povero“ Viturin
e questa era senz’altro la causa della sua fuga.

Non ci volle molto per scoprire chi fossero quei malnati tiratori.

La prima punizione arrivò da mamma che, con uno schiaffone a sorpresa,
mi accolse in casa un giorno di ritorno da scuola.
Giuro che mi fischia ancora l’orecchio.
La punizione più dura arrivo da nonna
che mi disse che la nostra era una casa di onorati socialisti
e non lo saremmo stati mai più (onorati).
Non sapevo esattamente cosa volesse dire socialista,
ma doveva essere una faccenda importante un bel po’.
La punizione più bella arrivò da nonno
che appena mi sedetti a tavola mi disse” Hai lavato le mani?”
La punizione più divertente arrivò dalla maestra
che ci mise in quattro dietro la lavagna e,
siccome ridevamo e ci prendevamo a gomitate,
ci mandò a quattro zampe uno per cantone, faccia al muro carponi per terra,
come fossimo animali disse lei,
al suono della campanella avevamo ginocchia e mani luride
e i lagrimoni agli occhi dalle risate.

domenica 16 settembre 2012

Il presidente Montini


Vivevamo a Porto Fuori e mamma era maestra d’asilo lì.
In quel periodo le “AAI” (Aiuti Internazionali) davano pacchi con viveri
agli asili e alle scuole soprattutto in quella regione
dove c’era stata una gigantesca alluvione causata dalla rottura degli argini del Po.
Presidente delle AAI era Ludovico Montini,
fratello di quello che poi diventò papa Paolo VI.
Era Natale e mamma aveva fatto il presepio e, siccome si sapeva
che sarebbe arrivato il Presidente Montini,
lo aveva fatto più grande e più bello del solito occupando 4 tavoli
messi in un angolo della sala della ricreazione.
Inutile dire quanto si fosse raccomandata con tutti i bambini affinché stessero buoni,
ma soprattutto con me: erano giorni che me ne parlava a casa,
dicendo quanto quel signore fosse importante e buono
e quanti viveri avrebbe potuto dare all’asilo.
Arrivò il giorno e mamma, col grembiule nero appena stirato,
riceveva quel signore dandogli la mano e per poco non gli faceva anche l’inchino.
Ricordo che gli arrivava a una spalla
e lui la guardava da quella che a me sembrava una altezza spropositata.
Noi bambini cantammo una canzone e poi ci mettemmo a giocare con l’assistente,
ad un certo punto la palla andò a finire sotto i tavoli del presepio
e io con gran foga corsi a prenderla colà;
mamma, mi chiamò forse per fermarmi,
ma io ero ormai sotto i tavoli e al perentorio richiamo mi alzai in piedi
buttando all’aria muschio, pupazzi, ciocchi di legno
e quant’altro costituiva il presepio.
Si salvò solo la capanna con la cristiana famigliola
e qualche pastore adorante che gli stava davanti.
Pensai che l’attenzione per l’importante ospite mi avrebbe salvato
Inutile pensiero, con mamma non c’era scampo!
Quando l’ospite alla fine della visita si rifugiò in cucina
mamma gli offrì un caffè
e qui è necessario dire che la cosa che a mia madre riusciva meglio in cucina
era far bollire l’acqua,
qualunque altra incombenza era riconosciuta in casa e fuori assolutamente disastrosa.
Il Signor Presidente (mamma sapeva mettere le maiuscole anche quando parlava)
bevve il caffè e poi esclamò: “Signora lei mi ha avvelenato!”
gli diede la mano e mentre stavamo tutti col naso appiccicato ai vetri delle finestre
lo vedemmo partire su un macchinone nero
con l’autista che aveva un gran cappello da generale.
.Nonostante il guaio del presepio e il tentativo di avvelenamento
i pacchi viveri arrivarono lo stesso ma io ricordo ancora il fischio all’orecchio
causa della sberla che mi arrivò di sorpresa mentre ero ancora alla finestra.