venerdì 31 agosto 2012

Gina


 

Babbo e mamma s’erano separati e a me m’avevano bocciato a geometri.

In realtà avevo smesso di andare a scuola dai primi di maggio

e, quando i preti del collegio lo impararono

mi riempirono di botte, ma a scuola non andai lo stesso.

Babbo mi volle con sè in alta Italia e mi iscrisse al Liceo Artistico di Verona,

perché era l’unica scuola che a fine ottobre accettò una iscrizione.

Una notte, passando in macchina per la città,

pensando di svolgere una lezione di educazione sessuale babbo se ne usci con:

“Vedi Paolo, quelle sono le peripatetiche”

Quasi ridendo gli chiesi: “Sono uguali alle putane che ci sono da noi?”

Guadagnai quella sera il primo affettuoso “vaffanculo” da mio padre.

 

Quando venne approvata la legge proposta dalla socialista Lina Merlin e altri,

Gina Rompietti di Anagni  si trovava in un casino di Verona e lì restò;

prese due stanze in affitto e si mise ad aspettare in uno dei bar più in vista della città, in via Mazzini, il salotto buono.

Non dovette aspettare molto, infatti, il padrone del bar:

visto quanto la signora scolava a credito, fece due conti

e l’assunse come donna delle pulizie. La Gina accettò:

in fondo era un lavoro pulito e poteva benissimo arrotondare a casa.

Quando arrivai io, un pomeriggio tardi, mi si presentò all’uscio una donnina graziosa, col rossetto che le arrivava a metà guance, una fascia in fronte,

i vestiti di qualcun altro e le scarpe col tacco.

Le chiesi della padrona di casa e le dissi che mi mandava Savino.

Lei, sfoggiando un perfetto dialetto veneto romanesco, disse “ La signora so io, tu si er puteleto?  Sito culaton? ”

“ Si, cioè no, …, sono il compagno di scuola di Savino e non sono culatone”

“ Fanno 45 mila lire al mese, c’hai li sordi? “

“ Il prezzo va bene, ma non c’ho una lira,

se mi dai una mano a trovare un lavoro ti pago”

E’ così che è cominciata la mia storia in casa della Gina.

Siamo andati avanti per quattro anni, tra i migliori della mia giovinezza,

andavo a pulire gli appartamenti appena costruiti, aiutavo nei traslochi,

facevo lavoretti da fattorino e quant’altro capitasse da fare

per non pesare troppo su quelli di casa.

Una delle prime sere che stavo lì, arrivano quattro o cinque “signore”

che mi fanno un sacco di complimenti e io, frastornato dalla compagnia un po’ strana, tenevo pitturato in faccia un sorriso di circostanza,

tanto che una delle suddette ebbe a dire “ Xelo semo? “ 

Quando se ne andarono la Gina mi spiegò che erano delle ragazze che stavano in strada,

mica come lei che era una signora e stava a casa sua!

Col tempo imparai a conoscere almeno una ventine delle bellezze che la sera,

prima di andare a lavorare, passavano a farsi un brulé da noi.

Quella con cui presi più confidenza era la Bruna, una ex collega della Gina,

(facevano la quindicina assieme nei casini ) lavorava davanti alla caserma e,

aggiustandosi il davanzale o dandosi delle pacche sulle natiche, urlava ai soldati

“Xe tuta saluteee, senti che roba ! “

passata da tempo la sessantina,
quella “roba” non doveva essere il massimo della qualità

ma lei era convinta che così si rimediava lavoro

e non è escluso che qualche soldato, disperatamente solo….

Col tempo si era fatta l’idea che sarebbe stato meglio per tutti

(lei e i suoi soldati ) se avesse lavorato dentro la caserma

e allora un giorno andò a parlare col comandante.

Quando ci incontrammo era incazzata nera perché il comandante

le aveva detto che non c’era lavoro per quello che proponeva lei,

tutt’al più qualche lavoretto di pulizie negli uffici si poteva trovare, 

sembra che lei, in un impeto d’orgoglio gli abbia risposto:

“ Mi sior comandante son putana, mica sguattera!”
Precisazione che nemmeno i Segretari Generali della CIGL
avrebbero potuto rivendicare con tanto orgoglio.   

Con la Bruna andavamo in giro la domenica mattina, lei mi faceva da Cicerone.

Non che se ne intendesse del patrimonio artistico di Verona,

ma ad ogni palazzo mi illustrava i vizi e virtù degli abitanti,

anche con dovizia di particolari: il notaio preferiva fare quella cosa,

el dotor la faceva salire per altri servizi e così via.

Lei quella gente la conosceva tutta  perché a lei confidavano le cose più personali.

In fondo la sua era una missione

e sono convinto che si sentisse anche orgogliosa del suo ruolo.

Si pranzava in qualche bettola di amici suoi e mi raccontava la vita

che si faceva nelle quindicine.

Ormai ci conoscevano e qualcuno le chiedeva se avesse trovato il moroso, ma

lei rispondeva con un “ va in cul “ e che ero il suo “nevodo”.

La Bruna aveva anche un cliente fisso, “el vecio”

che ogni settimana l’andava a trovare: si chiudevano in macchina

e lui le accarezzava i piedi complimentandosi per la loro bellezza,

I complimenti dovevano aver raggiunto l’obiettivo,

perché Bruna andava fiera dei suoi piedi e metteva solo scarpe molto aperte

“Perché”, diceva “la gente i ha da vedar”.

Ero così attaccato alla Bruna che il primo amore veronese che ebbi gliela presentai,

capii al primo istante che non fu un’idea felice

e già dalla stessa sera ero alla ricerca del secondo amore.

Per tutto il mio soggiorno veronese ho frequentato la Bruna

che mi trovava i lavori migliori e io la ripagavo con bevute al “botegon del vin”

in fondo a via Mazzini o pizze al “Panpan” la pizzeria dei portoni Borsari. 

Una sera tutta la classe fu invitata a cena da Paolo che abitava vicino ai bastioni,

uscimmo di casa ormai a notte e in strada c’erano già le lavoranti.

Le prime due che mi salutarono non mi fecero fare una gran figura coi miei compagni

 ma poi cominciai a presentarle.

Ci fermammo tutti nella postazione dell’Armida

a metà strada tra Porta Nuova e Porta Palio, dopo un po’ arrivarono anche le altre

e le ragazze che erano con noi presero confidenza con le signorine,

rimanemmo in loco per almeno un’ora

tante erano le domande che le mie compagne di scuola

tenevano in serbo da chissà quanto tempo.

Le mie amiche lavoratrici davano risposte dapprima un po’ vaghe

ma poi presero in mano la situazione e, forse per l’unica volta in vita loro,

salirono in cattedra dando ampi ed esaustivi riscontri alle richieste più strampalate.

Ogni tanto arrivava un cliente e le ragazze lasciavano il simposio 

per poi tornare di corsa a fine lavoro

quasi per paura di essersi persa qualcosa di importante.

Tornando ai primi giorni di soggiorno dalla Gina,

una sera arrivarono insieme alle ragazze solite, altre molto più giovani,

tre figliole da mozzare il fiato. Impensabile che fossero colleghe: altro aspetto,

portamento e glamour da gran donne.

Parlammo per un po’ finché uscirono con Savino

e io rimasi a bocca aperta per lo stupore di vedere un mio compagno di classe

che conosceva simili bellezze.

A notte Savino venne in camera mia a dirmi di non dire a scuola di quelle ragazze:

non gli piaceva che si sapesse,

mi sembrò una stranezza ma Savino un po’ strano lo era.

Non lo dissi mai: è questa la prima volta che ne parlo, giuro!

Ricordo che una si chiamava Giulia, e un’altra Violetta; dell’altra non  ricordo il nome,

ma quando seppi che erano “maschi” mi venne un colpo.

Anche con loro feci amicizia ma quando ero insieme ai miei compagni di scuola

evitavo accuratamente la zona del Ristori dove c’era un bar in cui le signorine

(si fa per dire) passavano la giornata.

A casa di Gina si stava benissimo, ovvero,
i primi quindici giorni del mese si stava benissimo,
pollo in gelatina, torte e pietanze mai mangiate prima,
quando finiva i soldi era un disastro.

La sera tornavo a casa e lei ubriaca stava seduta davanti al gas a guardare una pentola

dove dentro c’era tutto quello che aveva trovato per casa: patate, insalata, carote e …

Quando era così le dicevo che cenavo fuori e uscivo tra le grida della Gina

che ormai aveva preparato la “cena ” e le toccava buttarla
Le urla e le invettive finivano sempre con la frasetta
"Sciacquate da li cojoni" che era ormai diventata un detto di tutta la classe.

Al ritorno, di solito, la trovavo seduta sul water che dormiva e,

siccome il sanitario mi serviva, la tiravo su, la parcheggiavo sul bidet

e, terminato l’uso, la risistemavo dov’era prima.

Lei continuava a russare per tutto il tempo

e quando si svegliava, andava a dormire da sola nel suo letto.

Savino tornava sempre dopo di me e, siccome non la rimetteva mai a posto,

mi dovevo alzare e farlo io perché il bidet le faceva male nelle cosce

e quando si svegliava steccava svegliando tutti finché non le era passato formicolio.

Ogni tanto arrivava a casa un signore col quale la Gina si soffermava sull’uscio a contrattare.

Lui si lamentava perché lei aveva sempre bisogno di soldi

e le diceva che doveva farci pagare di più, lei gridava che “I puteleti nun se toccheno”,

finite le trattative andavano in camera della e ne uscivano poco dopo

con lei che lo aiutava a rassettarsi e, quando ormai era fuori di casa,

gliene diceva di tutti i colori, “Xe più cornuto de mi marìo”

( pare che avesse un marito a Genova ma non ne parlava mai ).

Giuseppe, il cognato di Valeria, una mia compagna di classe,

al tempo era l’incaricato dell’ENEL per staccare i fili della luce

e ormai era di casa da noi, in verità non l’ha mai staccata

e, quando arrivava, pregava la Gina di pagare,

“Dame i schei che te la pago mi” e allora facevamo la colletta per pagare Giuseppe

e non si riusciva mai a raggiungere la cifra e allora il mancante lo metteva lui.

Ogni volta che vado a Verona vado a trovare Giuseppe che ormai è in pensione

e ultimamente ha avuto qualche problema di salute: è una persona buonissima

e a volte parliamo della Gina e di quei giorni.

Per ovviare alla mancanza di soldi della seconda quindicina del mese,

convincemmo la Gina a prendere una casa più grande e affittare altre due stanze,

fu così che cambiammo casa e arrivarono ospiti un cameriere e un ferroviere

con sua moglie.

Il cameriere ci portava la cena tutte le sere verso le dieci,

un po’ tardi ma sempre meglio che digiunare

in cambio se la faceva con la moglie del ferroviere che era sempre fuori in treno (lui),

si incontravano al ritorno dal ristorante e stavano dieci minuti in camera.

Con Savino ci ridevamo su e lo chiamavamo “il rapido di mezzanotte”.

 

Fu durante il trasloco che, andando nella vecchia casa a prendere un po’ di roba

trovai la Gina davanti alla bombola del gas alla quale si stava bruciando il tubo,

lei immobile, in piedi, sopra una pozzanghera di pipì che s’era fatta addosso.

Mi venne istintivo chiudere la bombola e d’un tratto tutto fu a posto.

La Gina mi guarda e mi fa: “Puteleto, li mortacci tua, me gheto salvà la vita”;

mi sviene addosso e cadiamo tutti due per terra.

Quella sera ho fatto la doccia più lunga della mia vita!
Stavamo benissimo, abitavamo in via San Mamaso, dietro Piazza Erbe,

dove tutte le mattine passavo a fare colazione con un bombolone appena fritto,

e il pomeriggio, al ritorno dal lavoro, passavo davanti al Monte di pietà

dove c’era la signora che stava seduta fuori dalla porta e il marito che stava dentro

a leggere il giornale seduto alla scrivania.

A volte mi chiamavano e mi davano qualcosa che la Gina aveva appena impegnato

(erano così in confidenza che non le lasciavano nemmeno la ricevuta),

io la pagavo e la riportavo a casa, ovviamente l’arpia e il marito

lo facevano solo per riavere subito i soldi dell’impegno

non certo per un gesto di umana solidarietà, 

io mi incazzavo con la Gina perché se aveva bisogno di soldi poteva chiederli,

perché andare a comprarsi una radio o un ferro da stiro per impegnarli? 

Lei rispondeva :“Cossa vuto, ce sso bbituata” (mezzo veneto e mezzo romano)

però le cambiali che firmava per comprarsi la roba non le pagava

e allora arrivava l’ufficiale giudiziario a fare il pignoramento.

Ormai era di casa anche lui e, su suo suggerimento

avevamo fatto una dichiarazione in cui dicevamo

che i mobili delle camere erano proprietà di noi ospiti della casa,

così lui arrivava, prendeva un caffè, stava li una mezz’oretta con la Gina

e poi se ne andava.

In quel periodo soffrivo di violente tonsilliti con febbri altissime

non so quanto alte perché non avevamo il termometro ma erano alte, garantisco.

Un pomeriggio mi vengono a trovare Novella,

una di Roma che la Gina conosceva già

Laura, Valeria e Paola mie compagne di classe,

ad un certo momento si presenta la Gina con un piatto di frutta

e chiede chi ne voleva, le ragazze rifiutano e lei insistendo con Novella le dice

“ Magna Novè ce stanno pure le bbanane, guarda pargono li cazzi”

Le ragazze giurano di avermi sentito urlare,

io ricordo che mi son voltato verso il muro dalla vergogna

prima o poi dovremo consultarci per bene per ricordare esattamente il fatto.

Il tempo passava ed ero all’ultimo anno,

fu durante gli esami di maturità che una sera,

guardando lo sbarco sulla luna alla televisione,

dopo il famoso saltello sul suolo lunare,

la Gina si alza dalla sua sdraio, barcolla fino alla finestra,

l’apre e, in perfetto romanesco,

come quando diceva le cose davvero importanti, dice:

“A chi lo vonno fa crede, mica semo fessi, stasera la luna manco cce stà”.

Purtroppo fui promosso e dovetti tornarmene al paese.

Tornai qualche anno dopo a trovare la Gina insieme a Bruna mia moglie

(meglio specificare che non è la signora di cui sopra),

Trovammo la moglie del ferroviere in vestaglia:

probabilmente il cameriere non aveva ancora cominciato il lavoro al ristorante

e la Gina con una delle sue migliori sbornie,

il rossetto sparso per tutto il viso, come un quadro di Picasso,

e i capelli arruffati tenuti insieme dall’immancabile fascia sulla fronte.

Sull’uscio di casa le presentai mia moglie,  lei non mi riconobbe 

e allora la salutai con un “Arrivederci signora” e me ne andai.me ne andai.

giovedì 16 agosto 2012

L'Angiolina


Quando morì l’Angiolina qualcuno,
nella bacheca a fianco della porta della farmacia davanti al duomo,
mise un biglietto in cui ringraziava
l’angelo senz’ali caduto dal cielo per i servizi resi ai giovani della città.
Era di buona famiglia l’Angiolina,
il babbo comandante dei vigili urbani,
buone amicizie e sorelle morigerate e ben maritate,
e invece lei, che crescendo si accorge della sua bellezza,
vuol compiacersi mostrandola come le divine di allora,
una voglia strana che la porta perfino a bagnarsi sulla riva del fiume,
dalla parte degli uomini, dove mai nessuna donna andrebbe
fin quando, ormai femmina,
le occhiate degli uomini non le bastano più  e cerca carezze furtive
nell’ombra dei vicoli o dentro gli androni
e cade o si lascia scivolare accanto a chi più audace di altri, la tenta.
Osarono in tanti ed ebbero facili vittorie
fino a che, ormai  sola, dovette far cartello delle sue grazie
rinunciando per sempre alla speranza di un grande amore.
Io l’ho conosciuta l’Angiolina
quando ormai il tempo le imbiancava i capelli
e il lucido da scarpe glieli scuriva
ma  la bocca era sempre pittata di un rosso infuocato,
girava per la città avvicinandosi agli uomini
e con mano lieve mostrava la sigaretta vicino alle labbra chiedendo
di accendere e chissà che nei giorni di mercato
qualcuno non abbia acceso ancora.
Me la ricordo bene l’Angiolina
che mi metteva una mano tra i capelli
e con un roco sospiro mi chiamava
“Cocco de zia” chiedendomi notizie di mio padre,
me la ricordo con un vestito nero dai fiori grandi e lo scialle,
mi ricordo quel suo passeggiare lento
e un sorriso appena accennato con cui salutava
un sorriso di delicata e tiepida tristezza .
Fu un giorno di primavera che l’Angiolina,
partendo dalla panchina dei giardinetti,
si mise a correre con l’orlo delle sottane in mano come una giovinetta
per raggiungere finalmente lassù il suo grande sogno di divina.

PD or not PD


Questa è una cosina che ho scritto al tempo della fondazione del PD
l'ho trovata in giro per il computer,
adesso la metto qui
così so dov'è.

Oggi alla tivu si vede gente che fa discorsi, si emoziona
e cade qualche lacrima,
qualcuno penserà che è tutta scena e qualcun altro penserà
che si emoziona anche chi non si avrebbe mai pensato potesse farlo.
Sono giorni difficili,
anche nei congressi provinciali c’è stato qualche momento di vera commozione
e qualche compagno ha dovuto interrompere il discorso o continuarlo con la voce rotta.
In casa ne abbiamo parlato, i ragazzi sono convinti che si stia facendo bene
e magari si aspettano che anche io aderisca con maggior trasporto.
Ma come si fa a pensare di doversi dividere da compagni
che hanno passato con te  quaranta anni di partito,
gente che è venuta alle manifestazioni con la stessa bandiera
che, anche se ogni tanto cambiava (ormai ne ho un baule) era una per tutti,
compagni che dai tempi dell’eskimo
hanno vissuto insieme tutti i travagliati passaggi che ci hanno portato fino ad oggi.
Io ascolto i discorsi e sento che sono tutti belli,
non riesco a dare torto a nessuno
di quanti dicono che il cambiamento è necessario, anzi indispensabile,
e di quelli che dicono che invece dovremmo rimanere quelli che siamo
ma dentro ho qualcosa che mi preme nel petto.
Forse han ragione i ragazzi e io sto invecchiando.

giovedì 9 agosto 2012

Bandiera rossa trionferà


“Bandiera rossa la trionferà…lalà lalà lalà lalalala la la “
Chissà chi gliel’ha insegnata,
però in un posto dove la parrocchia si chiama “branco popolo libero”,
bandiera rossa la senti in ogni cantone.
“Bandiera rossa la trionferà…lalà lalà lalà lalalala la la   ciao Donatella! “
la canzone finisce sempre così, “ ciao Donatella!”.
E così Franceschino cammina con passo svelto
e fa finta di fumare baciando il medio e l’indice a larghi gesti.
La mattina passa alla Ras assicurazioni, è li fuori già alle nove, appena aprono
per salutare la Lucia, dev’essere una vera passione
perché torna ogni ora anche se gli dicono di andarsene.
“Sei juventino vero?
Quest’anno torniamo in A
Scusa se ti ho messo paura
Dammi la mano e saremo amici”
Tutto di un fiato che devi stare attento sennò non capisci cosa dice,
e se rispondi a vanvera ti guarda storto.
La madre in casa e lui sempre fuori,
tanto qualcuno che lo bada lo trova sempre.
Un giro sotto i portici; fruttivendola, giornalaio,  lavanderia e commercialiste
solo se ci sono Rossella e Monica, se c’è la Lorena no, lei lo sgrida
e allora lui non entra perché lo sa se Lorena è in ufficio,
riconosce la macchina lui, mica è stupido!
Poi torna, saluta le macchine per la strada, va a pranzo
e alle due è sulla porta di casa mia che mi aspetta,
quattro chiacchiere sulla juve, Buffon e Del Piero,
qualche parola sentita la mattina, mozziconi di frasi dette cosi
solo perché gli sono piaciute, tipo “’St’estate poca acqua” oppure “ E' passata la legge”.
Se quando arriva sono già in casa mi bussa dai vetri
e sta li finché non gli vado ad aprire la finestra
“Hai mangiato Franceschino? Vuoi mangiare con me?”
“Fuori pasto non si mangia!”
Me lo dice come un rimprovero.
Quasi mi manda di traverso la pasta.
Il congresso dei DS lo abbiamo fatto qui , nella sala di quartiere e lui, Franceschino,
era in prima fila tra il sindaco e il presidente della Provincia,
è stato a sentire tutto, ad un certo punto quando si facevano gli interventi
e ciascuno si alzava per dire la sua, si è alzato anche lui, ha chiesto ad alta voce
“Che ora è?”
“Le undici Franceschino”
“E’ tardi, dobbiamo andare tutti a letto, domani si lavora, non si va mica alla messa!”
S’è infilato il cappotto e sbattendo i piedi a ritmo
è uscito attraversando tutta la sala e cantando
“ban-diera rossa la trion-ferà…..”
Dopo un po’ tra il silenzio che s’era creato, s’è sentito,
ormai lontano ma più forte del solito
“CIAO DONATELLA!”
C’è voluto quasi un minuto per farci tornare al congresso,
come se Franceschino ci avesse messo una pulce nell’orecchio
forzandoci a una riflessione inaspettata e difficile da ricacciare indietro.
E dal fondo sala arriva un anonimo commento
“Sarà mica che l’intelligente è lui e noi non abbiamo capito un cazzo!?”

mercoledì 8 agosto 2012

Martina e il figlio di Trino

Nonno arrivò a ora di cena, cioè arrivò per cena
perché si cenava a qualsiasi ora arrivasse 
e siccome dovevamo essere tutti insieme
si aspettava sempre lui.
Dopo essersi seduto tirò fuori dalla tasca un libricino
e se lo mise di fianco al piatto, cenammo in silenzio e alla fine disse
“Questo libretto l’ho visto in giro per casa
e stasera l’ho trovato nel fienile del podere
e mi pare strano che qualcuno al podere legga poesie”
a quel punto Martina si alzò e scappò via lasciandoci tutti a guardarci
cercando una ragione che nessuno sapeva.
Mamma seguì Martina nella camera delle femmine
nonno si mise davanti al fuoco e accese la radio
io e Puccio ci alzammo e uscimmo dalla cucina senza saper cosa fare.
Era successo che Martina era andata con la bicicletta al podere
e s’era messa a leggere le poesie nel fienile insieme al figlio di Trino.
Trino, il mezzadro, si chiamava così perché una volta,
al prete che alla benedizione di pasqua gli aveva spiegato la questione della trinità
gli aveva risposto che anche lui aveva tre figli come il padreterno,
evidentemente la spiegazione non era stata esaustiva,
ma come fa uno che si spacca la schiena tutto il giorno a capire queste faccende!
La notte non fu molto riposante per i nonni, ogni tanto si sentiva discutere in camera loro
e mamma faceva fatica a tenerci buoni nel letto.
Ormai ci eravamo scordati di questa cosa,
quando una notte sentimmo una discussione venire dalla camera dei nonni,
la mattina dopo sapemmo che Martina e il figlio di Trino erano fidanzati già da un po’,
(vale a dire che Martina era incinta )
nonna era incazzata anche con me e quindi voleva dire che era incazzata davvero
a tavola disse che si doveva fare l’analisi del sangue al figlio di Trino
e io pensai che doveva essere malato davvero se alla cosa dovevamo  pensarci noi e non i suoi.
“Ci penso io” disse.
Due o tre giorni dopo era tornata la consueta calma e tutto pareva passato
e quando nonno dopo cena disse “ A poss …”
nonna gli puntò un dito contro e senza farlo finire disse:
“Se ci provate vi cavo gli occhi”
Poco tempo dopo Martina e il figlio di Trino si sposarono
e durante il pranzo di matrimonio nonno disse a Trino che
nel fienile si doveva mettere una porta con catenaccio chiusa a chiave
e ogni volta che io e Puccio andavamo al podere doveva seguirci e tenerci lontani dalle figlie.
Insomma era successo che quel fienile era stato ampiamente usato da mio nonno
con la moglie di Trino e dunque c’era stato il timore che quello che oggi era il marito di mia sorella
poteva essere il figlio di mio nonno.
Alla nonna poco importava di questa faccenda,
se non era la Mariuccia sarebbe stata un’altra,
sapeva benissimo com’era suo marito e lo accettava così,
quello che importava alla nonna socialista era che mio nonno avesse fatto vivere come un contadino
quello che pensava fosse suo figlio
e quella frase che quella sera mio nonno stava dicendo e che ogni tanto gli sentivamo dire era
“ A poss manchev d rispett stasira?”
Spesso nonna non rispondeva ma si girava con uno sbuffo facendo finta di negarsi.
La risposta di nonna è entrata nella storia  della famiglia
e ogni tanto ce la diciamo ancora anche senza motivo
 “Se ci provate vi cavo gli occhi”.

Quinto e Nucci

La fabbrica lavorava su tre turni,
 io, insieme a Giuliano e Giorgio ero capofabbrica turnista,
avevamo tutti tre una ventina d’anni e vivevamo nello stesso appartamento,
responsabile alle presse avevo Raffaelli Quinto,
gli altri due avevano Sgaggi e Nucci.
Per me Quinto era come un padre e conoscevamo le nostre faccende,
lui si stava costruendo la casa da solo e quando doveva posare i solai
mi chiamava e io andavo volentieri a dargli una mano.
Quando facevamo il turno delle 6 di mattina
Dante, il fratello,  mi portava un uovo fresco e me lo apriva
poi, quando ero a tiro, si toglieva una spilla dal bavero della giacca
bucava l’uovo sotto e me lo dava da bere
elogiando le proprie galline tirate su a granoturco “Ai dag el furmenton”.
Un giorno vedo Quinto seduto vicino alla pressa e gli chiedo cosa fa,
mi risponde che ha mal di stomaco, chiamo Bibi il cugino e gli dico di portarlo a casa
Mezz’ora dopo mi chiamano al telefono e mi annunciano la morte di Quinto,
un infarto l’aveva stroncato in macchina.
Dal padrone pretesi l’assunzione della figlia,
avevano un mutuo da pagare e nessuno che lavorava,
mi fu promesso ma ancora dopo un mese non l’avevano assunta
allora per protesta detti le dimissioni.
Due giorni dopo la figlia di Quinto era dei nostri
ma io me ne andai lo stesso.
Dopo un paio di anni fui richiamato in quella fabbrica,
stavolta avevo funzioni diverse non facevo più i turni e non avevo da badare alla produzione
ma il rapporto con gli operai continuai a tenerlo stretto, (non son mai riuscito a farne a meno)
e così che cominciò la mia amicizia col vecchio Nucci
capo pressa e ex minatore scelto, prima nelle miniere di zolfo qui da noi
e poi in quelle di carbone in Belgio.
Rimasi qualche anno in quella fabbrica,
io non mi sono mai fermato tanto nei posti di lavoro,
(nella mia carriera ne ho cambiati tredici)
ma anche se non lavoravo lì, col Nucci continuavamo a vederci.
Quando andò in pensione, chissà perché,
non ci vedemmo più, ma ci telefonavamo per farci gli auguri di capodanno
(al natale non ci credevamo nessuno dei due)
si faceva a gara a chi chiamava prima
tanto che un anno mi chiama prima della mezzanotte
e quando glielo faccio notare mi risponde
“Mei, axe fem insiemel capodann” (meglio, così facciamo insieme il capodanno).
Una decina di anni fa mi arriva una telefonata che mi dice press’a poco
“ Mio babbo è morto, ma prima di morire si è raccomandato di salutarti
so che eravate molto amici e a volte ti ho anche invidiato...”
allora gli ho detto quello che Nucci (chiamato sempre per cognome)
mi diceva di lui e della sorella, quello che avrebbe voluto dire a loro
ma non ci riusciva perché sentiva i figli distanti e gli pareva di fare la figura del tenero
“me ca so stat na vita sota tera cut vu cai dega ma lori chi è stat sempar sovra i livre”
(io che sono stato una vita sotto terra cosa vuoi che gli dica a loro che sono stati sempre sopra i libri).
Da allora tutti gli anni, a capodanno ci facciamo gli auguri con Gilberto,
ma non è la stessa cosa.
Quinto e Nucci pur profondamente diversi
avevano in comune le mani terribilmente solcate e me,
Ultimamente li penso spesso non ho capito se sia perché
so che mi stanno aspettando o perché mi mancano.